Capsicofagi

Sul “masochismo benigno” che ci spinge a mangiare…i peperoncini. La “piccante” rubrica CONTRONATURA di Diego Marra

Le piante non possono muoversi dal luogo di nascita, hanno così evoluto sistemi per invogliare o costringere gli animali a collaborare, per esempio nella dispersione di semi e polline. A volte propongono ricompense, come il dolce nettare omaggiato agli impollinatori, altre perpetuano vere e proprie truffe e manipolazioni, come il labello di alcune orchidee che simula la femmina dell’ingenuo insetto maschio attraendolo. Ma non pensate che noi siamo immuni dall’astuta seduzione con cui le piante sono in grado di manipolare gli animali! Prendiamo il caso dei peperoncini.
Col termine peperoncino si indica un gruppo di piante appartenenti al genere Capsicum, lo stesso del peperone, caratterizzate quasi tutte dalla produzione di copiose quantità di capsaicina, la molecola responsabile della sensazione di bruciore che tutti conosciamo; benché possa risultare alquanto sgradevole, più di un terzo della popolazione mondiale ricerca costantemente questo tormento. Il peperoncino è originario dell’America, ma si diffuse rapidamente in tutto il mondo, diventando parte della cultura gastronomica di molti paesi, tra cui il nostro soprattutto in Calabria, proprio per il principio piccante che contiene, la cui intensità fu definita da un chimico americano Wilbur Scoville nel 1912, la scala della piccantezza Scoville appunto. Un peperone dolce corrisponde a 0 shu (Scoville heat units) mentre la capsaicina pura ha un valore di sedici milioni di shu. I capsicofagi (consumatori compulsivi di peperoncino: quanti fra voi?) sono sempre alla ricerca del peperoncino più piccante e ogni anno si produce un enorme numero di nuove varietà nel tentativo di avvicinare il limite invalicabile di shu; nel 2013 il Carolina reaper (la mietitrice della Carolina; sì proprio quella mietitrice con la falce) ha superato l’astronomica cifra di due milioni di unità Scoville! Ma cos’è la capsaicina? È un alcaloide che entrando in contatto con le terminazioni nervose attiva un recettore che ha il compito di segnalare al cervello livelli di calore potenzialmente dannosi per il nostro organismo quando la temperatura raggiunge i 43°. Allora come mai oltre due miliardi di persone amano mettersi sulla lingua un alcaloide che provoca terribili sensazioni di bruciore? Sono state elaborate diverse teorie in merito, la più nota è dello psicologo Paul Rozin, secondo cui alcuni sono attratti dalle sensazioni di pericolo; per costoro mangiare peperoncino sarebbe una variante del gettarsi da un ponte legati ad una fune elastica. Nonostante il corpo percepisca il rischio insito in una tale attività, la mente sa che in realtà non si corre alcun pericolo, quindi non vi è necessità di interrompere lo stimolo. Rozin conclude che, dopo una serie di esposizioni allo stesso stimolo, il disagio iniziale diventa piacere e lo definisce “masochismo benigno”. Una spiegazione più interessante la fornisce Stefano Mancuso, noto fisiologo vegetale. L’ipotesi è che la capsaicina induca dipendenza come altri alcaloidi (caffeina, nicotina, morfina…) provocando dal cervello il rilascio di endorfine, potenti neurotrasmettitori dotati di proprietà analgesiche simili alla morfina. È ben documentato che il rilascio di endorfine provocato da uno sforzo prolungato sia responsabile dello stato di euforia, definito “sballo del corridore”. L’ardita, ma non tanto, ipotesi è che la dipendenza da capsaicina abbia legato a sé il più potente disseminatore di piante, l’uomo, favorendo una dispersione mondiale dei peperoncini. Ad ulteriore conferma: l’uomo è l’unico mammifero che gradisca consumare i frutti del peperoncino. Conclusione. I capsicofagi sono schiavi delle piante di peperoncino! I dati riportati sono desunti dal libro “Plant revolution” di Stefano Mancuso, che ringrazio per avermi ispirato questo articolo.

Diego Marra