Carta canta(va)

Che sia un arrivederci e non un addio.
È crepuscolare esser consapevole di dover scrivere l’ultimo articolo stampato su carta; ti dà la sensazione che sia la fine di un’era, che tutte le singole parole che potevano essere per davvero toccate una ad una, finiscano ad essere murate da uno schermo; ti dà la sensazione che stiamo trasferendo tutto ciò che c’è di reale e tangibile all’interno del gran cervellone della rete. Scrivere l’ultimo articolo è come passare l’ultima notte d’amore con la persona che già sai che l’indomani non ci sarà più e passerai il tempo a ricercarne il profumo in ogni centimetro delle lenzuola. È bislacco. Ti strozza in un magone e ti dà la forza di dimostrare tutto ciò che hai stretto in gola. Scrivere l’ultimo articolo è come voler dare tutto se stesso nella scena finale d’uno spettacolo teatrale, prima che il sipario si chiuda e lo scorcio del pubblico in platea s’assottigli progressivamente in un’ombra che ti entra dentro e una volta giù dal palco, torni ad essere l’uomo alla deriva quale eri.
Questo è il futuro, e d’altronde è solo questione di tempo per adattarsi; per ri-adattarsi. Io sono figlio d’una generazione che già aveva accantonato i cd perché l’mp3 era molto più comodo, economico e a portata di mano. Sì, ma il cd è tutta un’altra cosa. Il vinile, un’altra ancora.
Sono il figlio di una generazione che ha pile di videocassette e dvd ormai inutilizzati da tempo, perché i film si guardano in streaming o tutt’al più contravvenendo ai principi della legalità, scaricandoli da qualche sito internet. Sono il figlio d’una generazione che non va più al cinema, che il teatro manco a parlarne, ed i concerti dal vivo soltanto se si tratta di megasuperextra star pubblicizzate da youtube, a costi del biglietto stratosferici. Sono il figlio d’una generazione che ha messo da parte le birrerie e il calcio balilla. Il figlio d’una generazione che per attaccare bottone con qualche ragazza, la cerca su facebook e dà il via ad un’insistente crociata ai like.
Sono il figlio d’una generazione che piuttosto di trovarsi al campetto a giocare a pallone con qualche amico dalle ginocchia sbucciate, si ritrova al centro scommesse per giocare qualche spicciolo sulle partite della sera, tirato fuori da un portafoglio scucito. Sono il figlio d’una generazione della proliferazione di cibi spazzatura, degli acquisti online con corriere, delle foto salvate in una memory card e dei ricordi impressi sui tattoo. Sono il figlio d’una generazione che non conosce Pierangelo Bertoli, Stefano Rosso, Pasolini, il Gattopardo, Jimi Hendrix o la PFM; che non si cura di arte e che non investe tempo nelle passioni. Sono il figlio d’una generazione senza punti di riferimento, con una politica che fa schifo e viziati da un consumismo sfrenato. Sono il figlio d’una generazione senza lavoro e senza la voglia di lavorare. Figlio illegittimo d’una generazione che non sa cosa farsene della poesia. Sono il figlio d’una generazione di tante, troppe cose brutte. Sono il figlio d’una generazione che non legge i libri. Figuriamoci i giornali…
Che sia un arrivederci e non un addio.
Nel mentre, ci si vede sul web. Ma poi… le uova… come le incartate? Con il tablet?

“Non mi piace il mercato globale
che è il paradiso di ogni multinazionale
e un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli.
E immagino un futuro
senza alcun rimedio
una specie di massa
senza più un individuo
e vedo il nostro stato
che è pavido e impotente
è sempre più allo sfascio
e non gliene frega niente
e vedo anche una Chiesa
che incalza più che mai
io vorrei che sprofondasse
con tutti i Papi e i Giubilei.

Ma questa è un’astrazione
è un’idea di chi appartiene
a una razza in estinzione.”

GIORGIO GABER
da “La razza in estinzione”

Riccardo Bonsanto