Cavallerizza da sogno, Cavallerizza (fin troppo) reale

Si torna a parlare della Cavallerizza Reale con l’assegnazione dei nuovi fondi per la manutenzione dei beni comunali.

A più di un anno dall’ultimo incendio che, oltre al tetto delle Pagliere, ha bruciato anche gli ultimi sprazzi di un sogno condiviso, ancora non si è capito che fare della Cavallerizza. Per ora, c’è solo un’intenzione: nel nuovo Documento Unico di Programmazione (DUP), presentato dall’Assessore all’Urbanistica Antonio Iaria, parte dei fondi stanziati (31,5 milioni di euro) per la manutenzione degli immobili comunali di Torino sarebbe infatti stata assegnata alla manutenzione straordinaria di parte del grande complesso patrimonio UNESCO. Più nello specifico, già a partire da quest’anno 300mila euro verrebbero destinati all’ex Salone delle Guardie, a cui se ne sommano altri 500mila per la messa in sicurezza delle ex Pagliere e delle Manche del Cortile delle Guardie. Il resto dei fondi stanziati dal comune per il triennio 2021-2023 sarà destinato a molti altri lavori, tra cui spiccano quelli progettati per il complesso carcerario de Le Nuove (3,6 milioni di euro) e per la manutenzione straordinaria di Palazzo Civico.

Un po’ di equina nostalgia: “Unicornerizza”

Prima di ripercorrere le tappe del percorso intrapreso da Assemblea 14.45 nel maggio 2014, quel percorso che rese la Cavallerizza un vero e proprio punto di riferimento culturale e crocevia di incontri eterogenei, spendo due parole sul significato personale, soggettivo ed emozionale che questo luogo ha avuto, in modo forse troppo fugace e inconsapevole, per me (e per molti altri). Entrai per la prima volta in Cavallerizza per svolgere, nell’ampio cortile, delle lezioni di tedesco: frequentavo allora il primo anno di università e al nostro balordo professore, poco allineato alle stringenti regole accademiche, non avevano assegnato un’aula adeguata. Nessun problema: con germanico pragmatismo, complice un caldo sole primaverile, piazzavamo le sedie in cerchio e ripetevamo verbi, desinenze e frasi dai timbri duri. Gli abitanti e i frequentatori del complesso, alla fine delle lezioni, ci invitavano a fare un giro, curiosare e ripassare fuori dagli orari di lezione per scoprire il fitto mondo di teatranti, musicisti, pittori, performers, danzatori, artigiani, mistici stregoni, funamboli, mangiatori di fuoco …la mia fantasia contamina i ricordi, ma il fascino di quel posto, così in contrasto con la rigidità della lingua tedesca (che infatti non ho mai veramente imparato), mi aveva decisamente presa. Poi, però, partii per l’Erasmus: e in “cavalla” non ci tornai più per un po’. Al mio rientro, sempre in primavera, le mura di quel luogo trasudavano ancora più vita, racchiudevano creatività e speranze ancora più allettanti dopo il grigiore dell’inverno tedesco; inoltre, si faceva spesso festa fino a mattina. Impossibile non tornarci; a due passi da Palazzo Nuovo, passavo spesso i pomeriggi nei giardini a preparare spensieratamente gli esami più “romantici”, ma non solo: ripensandoci ora, mentre scrivo, realizzo di aver imparato molteplici sfaccettature dell’amore in quel luogo: l’amore più classico, che per caso trovai lì, ma anche l’amore per il teatro, sopito da qualche tempo, quello per la musica, per la diversità delle persone e per i luoghi, a cui scoprii che ci si può affezionare come ai fratelli, agli amici, ai compagni. Era una gioia aiutare a metter due assi sul pavimento, pulire un anfratto ancora inutilizzato con la candeggina, spillare birre al bar e sognare insieme ad altri derive dolcissime. Ero qualche anno più giovane di adesso, e senza esperienze di autogestione: ho vissuto tutto questo con un’ingenuità e con una tale assenza di malizia da provare, tempo dopo, forse la più cocente delle delusioni per un “paradiso perduto”. Sentivo spesso criticare le dinamiche, spesso disfunzionali, con cui la Cavallerizza veniva gestita, venivo a conoscenza di storie forse torbide, forse ingiuste, molto umane sicuramente; non me ne curavo, io lì ci stavo bene, ci facevo teatro senza dover pagare costosi corsi, fruivo di spettacoli, concerti, letture e addirittura conferenze di filosofia senza dover pagare un biglietto, contribuendo invece con ciò che potevo permettermi, e che ritenevo giusto alla gestione di quel magico luogo; crescevo, nel mondo degli unicorni.

Un po’ di dura realtà: Cavallerizza, in soldoni

Mentre io sperimentavo, estasiata, la Cavallerizza, questa si trovava ad affrontare diversi problemi, trattati spesso nelle numerose e interminabili assemblee che io, poco recettiva, spesso evitavo. Per questo da qui in poi la storia si fa documentata, e non direttamente vissuta: meglio così, per gli scopi di questo articolo, che vuole semplicemente ripercorrere una storia dal triste finale.

La Cavallerizza è stata occupata nel maggio del 2014 da un gruppo di persone decisamente eterogeneo: dai soggetti singoli in cerca di un posto in cui applicare la propria filosofia di vita, a collettivi in cerca di spazi per svolgere le proprie attività, a studenti dell’Accademia bisognosi di un luogo in cui poter dar sfogo alla propria creatività fuori dai rigidi e restrittivi schemi di un corso di studi troppo limitante, nonché ad associazioni e professionisti disponibili a rendere liberamente fruibili i propri corsi e laboratori. Tutti, però, con un obiettivo comune: sottrarre all’abbandono, a cui il Comune e il Teatro Stabile lo avevano condannato, quel complesso immenso dalle infinite potenzialità, patrimonio UNESCO dal 1997. Le origini della struttura risalgono al 1740, in piena era dell’Assolutismo sabaudo, e ai tempi fungeva da spazio per le esercitazioni equestri, un enorme agglomerato di stalle, scuderie, maneggi e spazioso cortile. L’opera, rispetto al progetto iniziale di Benedetto Alfieri, è rimasta incompiuta ed è stato ristrutturata e rimaneggiata nel corso dei secoli. Nel 2003, il Comune di Torino, ai tempi sotto l’amministrazione di Sergio Chiamparino, sigla un protocollo di intesa (https://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2003/Valorizzazione-del-patrimonio-siglato-accordo-con-il-Comune-di-Torino/) con il Ministero dell’Economia e delle Finanze per la valorizzazione del bene; tuttavia, ecco che nel 2005 il Comune richiede alla Soprintendenza per i beni architettonici l’autorizzazione alla vendita, la quale viene prontamente concessa; il bilancio della città è sempre più in passivo, al che nel 2007 gli inquilini del complesso vengono sgomberati, la struttura viene dichiarata “bene indisponibile” e nel 2009 la Cavallerizza viene ceduta alla CTT S.r.l (Cartolarizzazione Città di Torino), primo passo formale verso la privatizzazione. L’idea è quella di vendere (principali candidati: alberghi, appartamenti di lusso, negozi), ma non è per niente facile: i vincoli storici e architettonici, i costi sarebbero altissimi, i soldi non ci sono, e la Cavallerizza cade nell’abbandono.

È qui che entra in scena l’Assemblea Cavallerizza 14.45, che prende il nome dall’ora a cui si era fermato l’orologio, con l’intento implicito di farlo ripartire: la struttura viene occupata e i suoi spazi finalmente aperti e popolati: vi si inaugurano numerose attività rivolte a tutta la cittadinanza, con lo scopo di rendere la Cavallerizza un luogo veramente pubblico, attraversato da chi la città la vive senza distinzione tra portafogli. Nell’agosto 2014, il primo di una triste serie di incendi, probabilmente doloso, sporca l’atmosfera e semina i primi dissapori; le istituzioni sembrano quasi dare la responsabilità dell’accaduto all’assemblea stessa. Capiterà ancora, nell’ottobre del 2016, fino all’ultimo, finale, nell’ottobre 2019. Nel frattempo si tenta di negoziare con il Comune: tra un silenzio e qualche dichiarazione incoerente (l’assessore Passoni infatti alterna lunaticamente la volontà e la non-volontà di de-cartolarizzare Cavallerizza), nel gennaio 2015 si paventa la conversione di Cavallerizza in un ostello “di charme”, appaltato da grandi catene alberghiere, nonché parzialmente in esercizi commerciali. In marzo si stila un Protocollo d’Intesa che aspira a un percorso partecipato in cui figura, accanto alle istituzioni, l’immancabile Compagnia San Paolo. Il dettaglio meno democratico di tutti: la clausola di riservatezza che impedirebbe alla cittadinanza di accedere agli atti, cosa che suscita numerose proteste e la decisa richiesta formale di eliminare tale clausola (mai soddisfatta). Si parla di vendita, senza che né l’assemblea né i cittadini siano stati coinvolti o consultati. Scatta la denuncia all’UNESCO, che viene avvertita delle probabili speculazioni che il Comune e gli enti interessati stanno tramando a danno della Cavallerizza: in seguito agli accertamenti da parte dell’Organizzazione, il Comune cambia rotta e decide di de-cartolarizzare parte della struttura (Maneggio Alfieriano e Salone delle Guardie, a cui saranno destinati i fondi di cui sopra), ma non si sa bene per farne cosa. Da parte del Comune manca infatti un progetto unitario di riqualificazione, su cui l’assemblea potrebbe discutere, intervenire, negoziare. Niente. “Quale futuro per la Cavallerizza Reale?” …

Con il cambio di giunta, nel giugno 2016, il dialogo si fa più fruttuoso: viene indetto un referendum cittadino per chiedere la de-cartolarizzazione totale, vengono organizzati numerosi festival e l’assemblea viene riconosciuta come “soggetto garante di un processo di gestione di un bene comune emergente”. Su queste basi, si inizia a scrivere un progetto di uso civico, con l’intenzione di farlo approvare dall’Amministrazione: esso non supererà mai il lungo rimbalzo delle revisioni e delle contrattazioni, fino all’ultimo incendio, seguito dallo sgombero nel 2019. L’esperienza di occupazione è terminata, con sollievo della sindaca Appendino e del Presidente della Regione Cirio che addirittura si rammarica della mancata messa a profitto della struttura, ritenendo che edifici storici del genere “sono aziende che possono fare soldi e creare posti di lavoro. Noi, invece, lasciamo che li occupino gli abusivi e che vadano a fuoco”. Finalmente, con la Cavallerizza ormai perennemente chiusa da transenne e deserta, il Comune non ha troppi impedimenti a presentare un Progetto Unitario di Riqualificazione (P.U.R.), a cui il Comitato di Uso Civico, in cui l’Assemblea 14.45 si è nel frattempo trasformata per darsi “forma giuridica” e poter dialogare con le istituzioni, oppone P.U.R.A., un progetto alternativo che mira a colmare mancanze e imperfezioni del piano comunale. Tuttavia, il nuovo comitato non rappresenta tutte le soggettività interessate al futuro della Cavallerizza, e vi sono da parte di molti notevoli perplessità riguardo ai compromessi sempre più stringenti imposti dall’amministrazione, che sembra sempre schierata sulle logiche di mercato e di “valorizzazione” invece che sul valore reale di un Bene Comune aperto alla cittadinanza.

(Non) amare (le) conclusioni

La Cavallerizza è sicuramente stata qualcosa, qualcosa di bello e unico, ed ora non lo è più. In attesa dei lavori di manutenzione attuabili coi nuovi fondi stanziati dal Comune, ciò che si vede dall’entrata di via Verdi, o affacciandosi al cancello su via Rossini, è solo desolazione. Questi immensi edifici dai muri scrostati, circondati da transenne, deserti; se la giornata è uggiosa, si fa persino fatica a ricordarsi che da quelle mura usciva musica, che colorati personaggi si aggiravano sotto il porticato e che le persone creavano qualcosa in quell’atmosfera sgangherata; si è presi da tristezza, e si tira dritto. I piani di riqualificazione contengono quella parolina insidiosa, “riqualificazione” appunto, che a chi vive a Torino ormai non va più tanto giù: troppo spesso è stata sinonimo di svendita, commercializzazione, snaturamento e violenza. Il Balon, Porta Palazzo, il quartiere di Aurora, sono solo alcuni altri esempi di processi di “riqualificazione”, ovvero la rimozione forzata di tutto ciò che definito “degrado” (e questa parola assume un significato solo in quanto opposta a “decoro”, dunque le ragioni di questo degrado non vengono mai indagate: un degrado de-problematizzato), e la sostituzione con opere volte al profitto e alla pacificazione opulenta e ipocrita e alla rimozione (meglio dire allontanamento) delle realtà problematiche della città. In Cavallerizza, con la scusa dell’abusivismo e del degrado, sono state sgomberate molte persone che ne avevano fatto la propria casa e il proprio luogo di lavoro; i media si sono impegnati a dipingere a tinte fosche e cariche di moralismo una situazione che era, semplicemente, complessa ed eterogenea; l’incendio ha fatto il resto, chiudendo la bocca a chi ancora provava a parlare e spiegare. L’immagine dell’esperienza che questa occupazione culturale ha portato avanti per cinque anni è irrimediabilmente compromessa dalle basse strategie comunicative con cui spesso è stata attaccata e dai pesanti ricatti a cui è stata sottoposta: la Cavallerizza vivrà ancora, ma non sarà mai più di tutti.

Lara Barbara