Emergenza sanitaria: allarme rosso negli ospedali e nei territori

La totale mancanza di programmazione e interventi ha riportato i presidi e gli operatori sanitari di nuovo nell’incubo di inizio pandemia. Gravi le responsabilità regionali e la mancanza sorveglianza e direzione del governo nazionale.

Non si può gestire una pandemia senza una pianificazione puntuale ed efficace degli interventi, inseguendo affannosamente l’emergenza senza riuscire mai nemmeno a sfiorare l’obiettivo minimo necessario per affrontare una pandemia di queste dimensioni ed effetti, senza trascurare tutte le altre patologie. Eppure è proprio questo che sta accadendo nella nostra regione (e non solo). Nonostante fosse chiaro fin dall’inizio che andava ricostruito con urgenza quel tessuto di strutture e operatori sanitari depauperato dalle scellerate politiche regionali di tagli e privatizzazioni perseguite dal centro-destra come dal centro-sinistra (sono circa 150.000 tra medici e infermieri in meno negli ultimi 10 anni), le Regioni si sono fatte trovare clamorosamente impreparate ad affrontare la largamente preannunciata “seconda ondata”. Dopo otto mesi dall’inizio della pandemia, la carenza di personale ospedaliero e territoriale, l’indisponibilità di strutture, posti letto ospedalieri e per la quarantena, permangono ed anzi si aggravano di giorno in giorno. Certo oggi infermiere e infermieri hanno le mascherine (in primavera erano costretti ad usarle oltre il limite di sicurezza), i camici (all’inizio della pandemia dovevano condividerli fra i colleghi), i sovrascarpe (a marzo han dovuto usare i sacchi dell’immondizia), e certo si sa di più su virus e trattamenti, ma per il resto stanno vivendo esattamente le stesse drammatiche condizioni vissute in primavera. Vi è stata solo una effimera pausa di “normalità” tra la fine del confinamento a giugno e la ripresa dei contagi per il libera tutti estivo. Loro però, gli infermieri, i medici, tutti gli operatori, han vissuto l’estate nella consapevolezza che il virus non fosse alle loro spalle e nella preoccupazione di una ripresa di nuovo ad armi impari, perché dal di dentro era evidente che non ci si stesse preparando al facilmente prevedibile rialzo dei contagi.
Così, gli “eroi” di ieri (che mai han voluto essere così definiti) sono di nuovo nell’incubo, con la differenza che oggi son quasi dimenticati e anche derisi da negazionisti e riduttivisti che mettono in dubbio le code di ambulanze, i pronto soccorso congestionati, il carico di ricoverati negli ospedali, la gravità della malattia. Medici e infermieri ospedalieri, dei servizi di base e di medicina generale, sono dunque di nuovo e ancora sotto pressione. Carenze di organico, precarietà, disorganizzazione, turni massacranti, lavoro straordinario, timore per il rischio biologico per sé e i propri familiari, impotenza di fronte a situazioni umane di sofferenza che i malati devono vivere in solitudine, tutto questo genera negli operatori sanitari, pur temprati alla malattia e perfino alla morte, stress psicofisico, ansia e tanta rabbia per vedersi rituffati esattamente nella stessa situazione della primavera scorsa.

Le carenze e le manchevolezze

Sono stimati in circa 53.000 gli infermieri mancanti in tutta Italia (dai 3.000 ai 3.500 in Piemonte): 21.000 negli ospedali e 32.000 sul territorio. Questi dati risultano da confronti con gli anni precedenti secondo lo standard definito (ovvero al netto dei tagli perpetuati negli anni). A questi numeri vanno aggiunti circa 17.000 necessari per affrontare l’emergenza Covid nelle terapie intensive. E circa 50.000 sono i medici che mancano all’appello. A fronte di queste gravi e colpevoli carenze, la risposta è stata balbettante e insufficiente. Numero di assunzioni basso e con contratti a termine, in somministrazione, a gettone. Bandi regionali a singhiozzo e tardivi, quando si sarebbe dovuto organizzare un censimento e un piano di reclutamento nazionale per soddisfare più agilmente le necessità dei singoli territori.
Parlando di Piemonte, il segretario territoriale Nursind Torino Giuseppe Summa si chiede: «Dove sono gli infermieri che dovevano occuparsi del territorio considerato che presto potremmo mandare a casa i malati meno gravi ? Dove sono le 1000 unità che dovrebbero occuparsi dei 300 posti letto in più di terapia intensiva e 200 di sub-intensiva? E che fine ha fatto l’infermiere di famiglia che oggi viene utilizzato impropriamente a supporto delle USCA? Solo a Torino servirebbero 160 unità. Dove sono gli infermieri che avrebbero dovuto garantire l’apertura dei nuovi reparti covid senza pregiudicare le altre prestazioni sanitarie come accaduto in primavera?». Domande neanche a dirlo rimaste senza risposta.

I professionisti stranieri

In questa “fame” di operatori sanitari, il ministero della Salute si permette di ignorare le richieste di riconoscimento del titolo di medici, infermieri, e altre figure ottenuto in paesi diversi dall’Italia. Nel nostro paese operano già 77.500 professionisti di origine straniera, ma sono circa 3000 le richieste ferme al ministero in attesa di riconoscimento. «Rimangono ugualmente inutilizzate preziose professionalità perché in mancanza della cittadinanza italiana non possono partecipare ai bandi. Nel decreto “Cura Italia” (art. 13) su proposta dell’associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) e dell’Unione medica euro mediterranea (UMEM) è stato previsto il coinvolgimento dei medici stranieri nel SSN anche senza cittadinanza. Disposizione che però ancora non è stata attuata, nonostante le 10 mila richieste di professionisti stranieri della sanità giunte all’Amsi dalle varie regioni italiane». (da “Lavoro e Salute”,  n. 10 Ottobre 2020)

La rivoluzione e saturazione delle strutture ospedaliere

Con un’ordinanza datata 31 ottobre la giunta regionale del Piemonte ha dato disposizioni per la conversione di 16 presidi ospedalieri in Covid Hospital, tra i quali nella Città metropolitana di Torino: Martini (con chiusura del pronto soccorso) e CTO di Torino (conversione della Medicina del lavoro, parte della Rianimazione e dell’Ortopedia), San Luigi di Orbassano (con una conversione del 50% dei posti letto e pronto soccorso aperto), Venaria, Giaveno, Cuorgnè (totale con chiusura del pronto soccorso), Lanzo (con chiusura del punto di primo intervento), Carmagnola.
L’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi l’ha definita «una scelta difficile ma inevitabile per riuscire a fronteggiare la necessità crescente di posti Covid e dare una risposta immediata che decongestioni i nostri pronto soccorso». Non si capisce come si possano decongestionare i pronto soccorso chiudendone alcuni. «Probabilmente questa conversione non basterà – aggiunge Icardi – ma in questo momento non abbiamo alternative».
Di diverso avviso la parte sindacale che parla di «Una risposta tardiva e non programmata nei mesi precedenti con più accuratezza e non in piena emergenza. Fra l’altro molte strutture non sono provviste nemmeno di alcuni servizi fondamentali come la rianimazione [come l’ospedale di Cuorgné, ndr] – e continua la nota sindacale – Come è possibile che la Regione disponga una discutibile rivoluzione della sanità piemontese, attraverso una disposizione, senza aver interloquito prima con chi questa rivoluzione poi deve metterla in pratica e dopo aver di fatto trasformato già tutti gli ospedali in enormi focolai?» Sono infatti in aumento anche i contagi fra medici e infermieri. Oggi i dispositivi di protezione non mancano ma non in tutte le strutture sono state organizzate a dovere le cosiddette aree “sporche” e “pulite”, una disposizione fondamentale per evitare che gli operatori sanitari contraggano il Sars-CoV-2.
E punti dolenti nelle strutture ospedaliere stanno diventando anche i Pronto Soccorso con numero di passaggi in aumento. Da un report del Nursind si legge che negli ultimi giorni a Ivrea sono aumentate le sale in pronto soccorso per i pazienti Covid in attesa di ricovero/dimissione e un reparto è quasi saturo. A Ciriè si segnalano gravissime criticità e difficoltà nei ricoveri. E ancora più grave la situazione al pronto soccorso di Chivasso dove possono essere presenti massimo 18 pazienti e invece si arriva ad ospitarne fino a 28. «Insomma, una situazione a dir poco difficile, che le aziende periferiche come l’ASLTO4 non possono affrontare da sole, ma che la Regione sta sovraccaricando ulteriormente. – afferma Summa e si chiede – Che fine hanno fatto le OGR? Purtroppo siamo solo all’inizio, ma la situazione è di elevata criticità e a farne le spese purtroppo saranno ancora una volta cittadini e personale».

Cadigia Perini