Fermata a Ivrea. Colson Whitehead e La ferrovia sotterranea

Colson Whitehead ha presentato in Sala Santa Marta a Ivrea, sabato 21 ottobre, il suo nuovo romanzo La ferrovia sotterranea (SUR, € 20). Il libro è vincitore sia del Premio Pulitzer per la narrativa 2017 sia del National Book Award, traguardo che nessun autore raggiunge da vent’anni, ed è stato tradotto in 35 Paesi. Insieme a lui Gianmario Pilo, della Galleria del Libro, Martina Testa, traduttrice e interprete, e Simonetta Valenti, che ha letto un brano del romanzo

La ferrovia sotterranea è la storia di Cora, una ragazza nera schiava che lavora nelle piantagioni di cotone della Georgia, negli Stati uniti, nella prima metà dell’Ottocento. Cora tenta la fuga una notte e intraprende un viaggio diretto a Nord, dove i neri sono tratti in salvo dalle forze antischiaviste. A farle attraversare i diversi Stati dell’America è il treno della ferrovia sotterranea, che segretamente trasporta verso altri Stati gli schiavi fuggiaschi. La “ferrovia sotterranea”, come leggiamo dal risvolto di copertina, è “un’espressione con cui si indica, negli Stati Uniti, la rete clandestina di abolizionisti che aiutavano gli schiavi nella loro fuga”. L’invenzione del treno, nel romanzo, rende quella metafora una vera ferrovia.

La prima domanda è sulla storia che il libro ha alle spalle. Whitehead ha tenuto il progetto per sé per quasi 14 anni, poi ha iniziato a scrivere il romanzo. Cosa mancava? “Ebbi l’idea della ferrovia 17 anni fa, in realtà” risponde l’autore. “Si aggiunse dopo la struttura del libro, ossia il viaggio del protagonista attraverso gli Stati degli USA. Ognuno di questi per me era uno Stato della possibilità, uno Stato che significava un potenziale miglioramento. E’ un’idea che mi ricorda I viaggi di Gulliver di Swift. Quella prima volta però pensai di non essere abbastanza bravo, che avrei dovuto scrivere altri libri e affinare la tecnica.
Solo tre anni fa mi sentii maturo abbastanza per trattare un tema come quello della schiavitù. Sottoposi l’idea a più persone. Ne parlai a mia moglie, perché come forse sapete a volte nel matrimonio tocca anche fare conversazione. Lei mi diede il primo voto a favore. La seconda persona con cui ne parlai fu il mio agente, che apprezzò il progetto e che mi scrisse una mail di domenica mattina, cosa straordinaria, in cui diceva che non riusciva a smettere di pensare a questa idea della ferrovia. Ero a due voti favorevoli. Ancora, il mercoledì gli amici commentarono: “Ma che, sei matto? Però questa idea è bella”. Quando spiegai il tutto al mio editor, infine, la sua risposta fu: “Dai che cazzo!”, che nel suo lessico vuol dire che l’idea sembra molto valida”.

Da quel momento il libro prese forma. Ma fin dall’inizio il protagonista è stato femminile? E che differenza c’è tra Cora e gli altri schiavi della piantagione? Whitehead spiega: “Quando avevo la storia in testa non sapevo chi sarebbe stato il protagonista. Pensai a un uomo, a un marito in cerca della moglie, infine a una ragazza. In seguito lessi un testo, l’autobiografia di una schiava scappata da una piantagione, che mi aiutò a capire la condizione delle donne in un contesto del genere. Compariva il ricordo di quello che fu il suo passaggio da ragazza a donna. Nella piantagione la donna era l’oggetto del bisogno sessuale e dare alla luce figlio era il suo compito. Perciò la differenza tra Cora e gli altri schiavi sta in questo: una donna schiava ha una componente di drammaticità maggiore di uno schiavo maschio”.

La ferrovia sotterranea è un romanzo sull’America. Mentre seguiamo il viaggio di Cora, il libro ci guida nei diversi Stati americani, che si differenziano tra loro per le condizioni di vita consentite ai neri diverse in ogni Stato. Nella Georgia i neri sono braccia per la raccolta di cotone, in Carolina del Nord c’è un paese in cui ogni venerdì i bianchi si radunano per impiccare uno schiavo fuggiasco, in Carolina del Sud si fa uso di loro per esperimenti medici.
Il romanzo di Whitehead, ora, esce nel Paese di Trump. Dopo quasi due secoli le contraddizioni degli Stati Uniti dell’Ottocento e di quelli dei giorni nostri sono ancora le stesse? “Molte cose sono rimaste uguali” risponde Whitehead. “In America succede che c’è un elemento di progresso, ma dopo segue subito un passo indietro. Io sono cresciuto negli anni ’70 e non mi sarei mai aspettato un Presidente nero, ma poi lo stesso Paese che lo ha eletto ha votato Trump: gli errori del passato si sono ripetuti. Certo, le grandi città sono cosmopolite e vivere in mezzo ad altre culture significa non averle in odio, ma New York è razzista e gli Stati Uniti lo sono. Sembra appunto che si risolvano i problemi e poi subito si faccia marcia indietro. Questo non vale soltanto per l’America”.

Nella presentazione si osserva che il romanzo affronta una grande varietà di temi, non soltanto le condizioni di vita degli schiavi neri. Si ricorda anche che all’uscita del romanzo l’autore ha dichiarato: “Non sono un rappresentante dell’essere afroamericano, ho scritto un libro e vorrei parlare di quello”. La domanda allora è: qual è il tema chiave del romanzo? “E’ difficile rispondere” dice Whitehead. “Il libro parla degli Stati Uniti, della schiavitù, ma soprattutto del rapporto dominatore-dominato. Questo rapporto è una componente della storia umana da sempre. Ogni nazione in cui il mio romanzo è stato pubblicato lo ha collegato alla storia del proprio popolo. La Francia e la Polonia hanno nella propria memoria il nazismo, in più la Francia ha la Resistenza. Le forze abolizioniste americane nel libro sono state lette come suggestione della lotta contro i tedeschi. L’obiettivo fu sempre uno: sovvertire il dovere dell’oppressione, mettere in salvo delle persone”.

Nel libro però leggiamo anche di qualcuno che insegue gli schiavi, che è convinto della superiorità dei bianchi: Ridgeway, il cacciatore di schiavi che cattura Cora in Carolina del Nord. Durante la presentazione vengono lette alcune sue parole dal capitolo Tennessee : Io preferisco lo spirito americano, quello che ci ha fatti venire dal Vecchio Mondo al Nuovo, a conquistare, costruire e civilizzare. E distruggere quello che va distrutto. A elevare le razze inferiori. Se non a elevarle, a sottometterle. Se non a sottometterle, a sterminarle. Il nostro destino prescritto da Dio: l’imperativo americano. L’autore commenta: “Ridgeway per me doveva essere un antagonista formidabile per una protagonista formidabile. Doveva essere un cacciatore di schiavi, ma anche una sorta di filosofo, che nei suoi discorsi teorizzasse le convinzioni e i principi che hanno costituito l’America che conosciamo: il suprematismo bianco, l’imperialismo, l’imperativo americano. Ecco, nel romanzo Ridgeway spiega a Cora cosa vuol dire per lui essere americano e libero”. Questi per Whitehead furono i principi su cui gli Stati Uniti si formarono. L’autore aggiunge: “La storia dell’America si presenta come corpi rubati che lavorano terre rubate. Mi riferisco ai neri costretti in schiavitù, ma anche al genocidio delle tribù native americane, all’uccisione di un popolo intero”.

C’è ancora un personaggio su cui si domanda, la madre di Cora. Quando la ragazza aveva dieci anni la madre Mabel fuggì dalla piantagione e l’abbandonò. L’autore spiega: “Nei confronti della madre si forma una contraddizione in Cora: Mabel da una parte è il segno che la fuga è possibile, ma dall’altra è una donna che ha abbandonato la figlia. Nelle ultime pagine noi scopriamo dove va a finire Mabel, ma Cora non lo scopre. Noi sappiamo qualcosa che la ragazza non sa. E lei ha un’opinione sulla madre ma non conosce la sua vera storia. Quello di cui volevo parlare con questo passaggio è la distanza tra le generazioni. Io posso criticare i miei nonni, ma non conosco la loro vita e non posso veramente comprenderli. Lo stesso vale per Cora”.

Nella presentazione Whitehead tratta molti temi diversi, tutti contenuti nello stesso libro. A chi l’ha ascoltato non resta che cercarli nel romanzo, leggere il dramma della vita di una donna schiava, le diverse facce dell’America, la distanza tra due generazioni. Nel frattempo il treno della ferrovia da Ivrea è partito per un’altra città.

Elia Curzio