Il continuum disumanizzante dei detenuti

La situazione nella casa circondariale d’Ivrea è critica. Come si è arrivati in questa situazione? Ne parliamo con l’Associazione volontariato penitenziario “Tino Beiletti”

 

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Ivrea, Corso Vercelli 165

Proteste che si susseguono nel carcere d’Ivrea. Non stupiscono, alla luce di questi fatti, le dichiarazioni del Garante dei diritti dei detenuti del comune di Ivrea Armando Michelizza: «Le segnalazioni di episodi di violenza in questo carcere sono purtroppo frequenti».
Ma come si è arrivati a questa situazione nella Casa circondariale eporediese?

Alcuni indizi possono essere trovati leggendo i documenti ufficiali e le “schede”. L’associazione Antigone (fondata nel 1991, si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale) pubblica e aggiorna costantemente sul suo portale online le informazioni legate alle varie carceri italiane. Leggendo la scheda relativa al penitenziario eporediese vengono alla luce diversi elementi critici. Negli ultimi 3 anni l’associazione avrebbe registrato almeno 114 casi di autolesionismo, 2 suicidi appurati (l’ultimo a luglio di quest’anno) e 222 scioperi della fame.
I volontari penitenziari di Ivrea ci spiegano che la violenza su se stessi è il mezzo quotidiano per far sentire voci inascoltate, in quanto gran parte di questi problemi non possono essere risolti. Basti pensare che nell’appena trascorsa estate sono stati diversi i casi di autolesionismo all’interno della sezione di transessuali. Queste persone non hanno le condizioni per essere tutelate e nonostante quest’area sia presente ad Ivrea da anni ormai non è ancora stato attivato un servizio sanitario adeguato.

«Il carcere è disumanizzante e utilizza metodi violenti.»
                                                                         Paolo Bersano

Ma la violenza è anche il principale degli strumenti di comunicazione indiretta: molti detenuti, infatti, arrivano da ambienti violenti, sono abituati a linguaggi violenti e sono costantemente sottoposti a rischio incattivimento. «La polizia si ritrova spesso a lavorare in condizioni di grande tensione, sempre soggetta a vessazioni e provocazioni. Purtroppo si trovano in carcere persone con patologie psichiatriche, con gravi disturbi dovute all’abuso di droghe, che avrebbero bisogno di strutture sanitarie e non dovrebbero finire in Carcere» ci spiega Paolo Bersano, presidente dell’associazione volontariato penitenziario Tino Beiletti. «Il carcere è disumanizzante e utilizza metodi violenti; sovente è intriso di violenze psicologiche a causa di una quotidiana repressione e ogni aspetto trascurato della vita del detenuto crea un continuum nel disagio della persona. In questo contesto può accadere che mancanze apparentemente banali possano scatenare reazioni convulse. L’emarginazione è all’ordine del giorno e a volte basta l’arrivo di nuovi detenuti che non vogliono integrarsi per rompere un equilibrio precario».

Quel che è certo è che le proteste dello scorso mese sono andate oltre una rottura di equilibri. «Alcuni detenuti» – ci spiega sempre Bersano – «in quell’occasione sono stati particolarmente determinati nelle loro rivendicazioni, denunciando una situazione insostenibile che cela un malessere più profondo».
Ma quali provvedimenti verranno presi per i detenuti responsabili della protesta? Difficile trovare una risposta certa, ma solitamente, in questi casi «i responsabili vengono dispersi in altri istituti».

Sorge spontaneo un pensiero. Il problema culturale che affligge la nostra società è quello di considerare, purtroppo, il carcere come una “discarica sociale” (parole di Giovanni Maria Flick, ex ministro grazia e giustizia, ex presidente della corte costituzionale), ovvero un luogo dove poter scaricare i problemi. All’interno dello stesso carcere, poi, di fronte a queste rivolte la soluzione adottata diventa quella di rimuovere nuovamente il problema spostandolo da un’altra parte. In tutto questo movimento ci si dimentica del fatto che quelle stesse persone che abbiamo emarginato usciranno dal carcere, portandosi dietro il rancore prodotto dall’abbandono.

Bertold Brecht diceva che “è più criminale fondare una banca che rapinarla”. Parafrasandolo verrebbe da dire che “è più criminale fondare un carcere che svuotarlo”.

Andrea Bertolino