In attesa che la luce si rincontri col buio

In attesa della riapertura dei cinema, quando la luce del proiettore tornerà a incontrarsi con il buio della sala, non rinunciamo ad ampliare la nostra cultura cinematografica. In questo periodo di isolamento e segregazione, sicuri che ormai abbiate dato fondo a quella lista di film che vi ripromettevate di vedere quando ne aveste avuto il tempo, vi veniamo in soccorso con questa rubrica settimanale di consigli cinematografici. Buio in sala e… buona visione!

Mindhorn

Regia: Sean Foley
Catalogo: Netflix
Paese: U.K.
Anno: 2016

Ridley Scott ci ha visto lungo, ancora una volta, producendo un film incentrato proprio sulla “vista”. Negli anni ’80, Mindhorn è una serie tv a che parla di un ex agente speciale inglese, con al posto di un occhio un sofisticato apparecchio in grado di riconoscere le bugie e di “vedere la verità”. Le sue avventure sono seguite ogni giorno da milioni di spettatori, e l’alchimia che Richard Thorncroft ha con la sua controparte femminile si riflette anche nella vita reale. Ma vent’anni dopo le cose sono cambiate: Thorncroft non è più Mindhorn, ma è un ex attore fallito, e la sua fantastica chioma è in realtà un toupet. La sua carriera pare essersi arenata, e i ruoli faticano ad arrivare, in più il suo matrimonio è fallito da tempo. Un giorno, nell’isola di Man (dov’era ambientata la serie) un giovane psicopatico ricercato per omicidio comunica alle forze dell’ordine che parlerà soltanto con il detective Mindhorn. L’unico modo per auspicare la sua cattura è quella di chiedere a Richard di reinterpretare ancora una volta il ruolo di una vita. Colta al balzo l’occasione per tornare ancora una volta sotto i riflettori, Richard torna ad essere Mindhorn, ma con vent’anni e qualche chilo in più…
Il film, diretto da Sean Foley e, come già accennato, prodotto da Ridley Scott e distribuito da Netflix (senza cui, probabilmente, non l’avremmo mai visto) è una commedia demenziale inglese, con tutte le implicazioni che questa etichetta comporta: l’umorismo, diversamente dalle commedie demenziali americane, si sposa con la comicità anglosassone, dando vita a situazioni paradossali nelle quali, spesso e volentieri, ci si ritrova a ridere a denti stretti. Ma anche le risate a crepapelle non mancano, così come non mancano momenti più riflessivi. Il personaggio di Richard Thorncroft, interpretato alla perfezione da Julian Barratt (anche sceneggiatore), diverte e commuove allo stesso tempo. A livello di comicità e tematiche, siamo dalle parti della Trilogia del cornetto di Edgar Wright, Simon Pegg e Nick Frost (in particolare sarebbe interessante un confronto con il personaggio di Gary King in The World’s End), ovvero quel politicamente scorretto più frenato (ma non meno divertente e forse anche più poetico) rispetto alla comicità targata USA di Ben Stiller o Adam Sandler (che a dire il vero, è poetica a modo suo).
Mindhorn è solo una delle tante piccole perle presenti sul catalogo Netflix; piccoli film che senza il colosso streaming non troverebbero una degna distribuzione e che rischierebbero di passare inosservate.

The Voices

Regia: Marjane Satrapi
Catalogo: Amazon Prime
Paese: Germania, U.S.A.
Anno: 2014

Marjane Satrapi è una fumettista, regista e illustratrice iraniana, naturalizzata francese. È conosciuta ai più per il suo fumetto (poi diventato un film d’animazione da lei diretto) Persepolis, che racconta attraverso gli occhi di una ragazzina la storia dell’Iran, dalla prima Rivoluzione iraniana alla nascita dei fondamentalismi islamici. Il film, considerato uno dei film d’animazione più belli di sempre, vinse il Premio della giuria a Cannes ed ottenne una nomination all’Oscar, ma nonostante questo picco meritato quanto “precoce”, la carriera da regista di Marjane Satrapi non si è fermata. Dopo una serie di film in lingua francese, nel 2014 ha diretto The Voices, un film bizzarro e difficilmente catalogabile: si passa dalla black-comedy al thriller, per sfociare nello splatter, nel romantico, e infine nel drammatico.
Jerry (Ryan Reynolds) lavora come operaio in una fabbrica dalle tinte pastello (troppo bella per essere vera) che produce vasche da bagno. Alla contabilità lavora Fiona (Gemma Artenton), una ragazza di cui Jerry è follemente innamorato, e a casa lo aspettano Bosco e Mr. Whiskers, un cane e un gatto che… parlano. Jerry soffre infatti di schizofrenia, e i suoi animali domestici sono le famose “voices” del titolo; ma non solo: una sera Jerry dà un passaggio a Fiona, e dopo un incidente stradale “inavvertitamente” la uccide. Su consiglio di Mr. Whiskers si arma di seghetto e coltello e fa a pezzi il cadavere, nascondendolo in una serie di tupperware che impila contro le pareti. La testa, invece, la conserva in frigo, iniziando a dialogare anche con lei. Lei lo ha perdonato, ma si sente un po’ sola in quel frigo: infatti chiede a Jerry di procurarle un’amica. E perché non Lisa (Anna Kendrick), la collega di Fiona alla contabilità? Dopo un’iniziale reticenza, Jerry decide di esaudire il desiderio di Fiona, ma iniziando a frequentare Lisa (con un coltello in tasca) finisce per innamorarsene…
Mettendo da parte le tematiche più “impegnate” del film d’esordio, la Satrapi non rinuncia però alle sue origini fumettistiche. Anche la violenza, per quanto realistica (certe scene sono parecchio inquietanti, per quanto divertenti) è portata all’estremo, proprio come nei fumetti. Forse il film non è pienamente riuscito, ma resta comunque un’opera originale e divertente, fresca, che dimostra come la Satrapi riesca a spaziare da un genere all’altro (anche antitetici). Il film, non il più famoso di Reynolds, è però un tassello fondamentale nella sua carriera: un personaggio come Jerry, con il suo carattere bizzarro e con la sua violenza ai limiti del grottesco, si pone esattamente a metà tra il romanticone di Ricatto d’amore e il suo personaggio più riuscito, cioè Deadpool, che uscirà appena due anni dopo.

Roma, ore 11

Regia: Giuseppe De Santis
Catalogo: Raiplay
Paese: Italia
Anno: 1952

Considerato uno degli ultimi film del filone italiano del neorealismo, Roma ,ore 11 è stato anche definito “più che neorealismo”, essendo il regista Giuseppe De Santis partito da un fatto di cronaca nera per poi approdare a una rielaborazione della realtà, proponendo un film corale denso di significati e storie diverse, dove tutti sono personaggi secondari e i veri protagonisti sono il fatto in sé e la realtà che ne è causa.
Alla base dell’opera un incidente realmente accaduto a Roma in via Savoia 31 nel gennaio del 1951, alle ore 11 ovviamente: a causa di un annuncio di lavoro per un posto da dattilografa, si presentano nell’ufficio di un ragioniere duecento ragazze, tutte intenzionate, per motivi differenti, ad accaparrarselo. Il timore di non essere nemmeno prese in considerazione e il bisogno di lavorare le spingeranno ad accalcarsi sulle scale e a litigare per il posto in fila. Il gesto di una di loro, che tenterà di saltare la fila, provocherà un tale scompiglio da far crollare la scale dell’edificio. Molte di loro rimarranno contuse, alcune ferite, e una, nonostante il pronto intervento chirurgico, morirà.
De Santis raggiunge qui l’apice della sua poetica, coniugando perfettamente il realismo dei personaggi con una tensione da dramma sociale, riuscendo contemporaneamente a farci empatizzare con le singole storie dei personaggi e farci riflettere in modo critico sui temi più generali.
L’opera è satura di spunti di critica e analisi, primo fra tutti la condizione femminile degli anni ’50 in rapporto al lavoro: ogni personaggio è una vita diversa, una donna diversa. Dalla ragazza disposta a tutto per un lavoro a quella timida spinta dalla madre, dalla ragazza povera alla nobile decaduta, da quella più casta alla più libertina, tutte spinte da bisogni simili ma differentemente declinati: il bisogno di soldi e quello diindipendenza.
Il tema centrale e più critico è tuttavia il lavoro, più precisamente la mancanza di lavoro e cosa ci spingiamo a fare per ottenerlo. Anche se la ragazza che senza volerlo causerà l’incidente si sentirà in colpa per la morte di un’altra, il colpevole del film è un altro: la disoccupazione. Tutte le storie girano in realtà intorno al perno del lavoro, della mancanza di lavoro, che rappresenta per ognuna la realizzazione dei propri obbiettivi, siano essi l’indipendenza, la possibilità di crearsi una famiglia o di staccarsi dalla propria, o il bisogno di non morire di fame.
Con il suo bianco e nero e la sua prospettiva il film vi darà l’impressione di entrare in un’altra epoca, in un’altra Italia. Un paese che è oggi cambiato certamente nell’estetica e nelle piccole cose, ma che tutto sommato possiamo ritrovare, per i suoi grandi problemi e grandi pregi, perfettamente rappresentato anche in un’opera che, ad un occhio superficiale, può apparire fuori tempo, ma che è più attuale di tutte le altre.

A cura di Pietro Pedrazzoli e Lorenzo Zaccagnini