In ospedale al tempo del COVID-19

Da un ospedale del Piemonte una testimonianza “in presa diretta”

In questi giorni entrando nell’ospedale dove lavoro al mattino presto si sente questo profumo intenso di cornetti; nell’atrio vi sono diecine di vassoi incartati e divisi per reparto: sono il dono dei fornai della città per chi lavora in ospedale. Lo stesso capita spesso la sera con pizze e focacce.
Ecco, questo mi fa commuovere e iniziare la giornata non mi pesa più.
Gli immensi corridoi sono deserti, irriconoscibili, i reparti chiusi a chiave, blindati, dappertutto scritte “le visite dei parenti sono sospese”, i pochi ambulatori funzionanti sono per le visite urgenti, per i malati del pronto soccorso e ti chiedi: “ma quanto può durare tutto questo?”
Di ore sì, se ne fanno tante, perché i turni di guardia diventano lunghi e tanti, il personale è decimato dal virus ed il lavoro è stravolto, ti adatti a specialità che non sono le tue, ai reparti misti, ad infermieri che non conosci. Molto stressante il tutto, ma ci si aiuta a vicenda, si ha il modo di conoscere colleghi altrimenti sconosciuti, gente simpatica e diversi stronzi.
Con i miei colleghi stretti invece il rapporto è ottimo. Nei momenti di pausa il cameratismo la fa da padrone, si ride spesso vagando per i corridoi deserti, non abbiamo più un reparto, le sale operatorie spostate in un altro ospedale, ci si alterna per lavorare lì, poi si riporta tutta la documentazione la sera e la si archivia insieme ad esami e radiografie.
L’ospedale non è più diviso per specialità, ma in aree covid + e aree no covid. Le covid + poi suddivise in normali, subintensive e intensive. Insomma tutto stravolto. Mi ritrovo spesso a vagare tra i piani, alla ricerca dei nostri pazienti.
Solo un reparto per acuti è rimasto “pulito”. Tutti gli altri sono sporcati dal virus, ma il pericolo siamo noi ora, che potremmo sporcare con i nostri spostamenti i reparti puliti che poi vuol dire infettare altri pazienti.
Quindi entrando tra gli infetti c’è un protocollo di vestizione con tute, maschere, occhiali e doppi guanti, come entrare in sala operatoria, ma le maschere sono più impegnative, si respira peggio, fanno saltare gli occhiali che non puoi toccarti e quindi sei alla ricerca di qualcuno che possa rimetterteli.
Entri nelle camere, visiti, medichi, prendi i parametri, poi esci e comunichi a chi può scrivere, a chi ti passa il materiale per medicare, tutto senza mai toccarsi. Quando finalmente si finisce, inizia la svestizione, anch’essa con protocolli precisi per non contaminare niente e nessuno.
Noi ci alterniamo tra reparto, pronto soccorso, ambulatori, e abbiamo modo di respirare, ma gli infermieri restano lì, tutto il turno.
Chi vestito da guerra batteriologica, chi di supporto all’esterno. E mi chiedo come facciano a resistere: non possono alternarsi troppo spesso nei ruoli perché le protezioni sono contingentate, non si sprecano mai; le caposala che devono gestire reparti misti, fare i conti col personale che si ammala e viene a mancare, col materiale che scarseggia, con le liti che spesso nascono tra gli operatori, stressati e confusi. Medici che pretendono, infermieri che non riescono a dare e viceversa.
Superare il turno è resilienza.
E poi ci sono loro, i malati.
Molti colti dal virus mentre erano ricoverati per altre patologie, quindi subito isolati, ma stanno in genere bene, ti parlano, ti chiedono cosa possono dire ai loro parenti, se sei disponibile ad una chiamata, se questo virus li possa uccidere, se e quando potranno uscire da lì.
Alcuni di loro nel corso dei giorni improvvisamente peggiorano, iniziano con difficoltà nel respiro, aumenti l’ossigeno, ma non ce la fanno, la saturazione scende ad 80%, la radiografia del torace diventa drammatica, non più aria nei polmoni, solo trame bianche sempre più spesse e invadenti, è la malattia conclamata.
Chiami il rianimatore che deve scegliere, terapia intensiva o subintensiva ?
Nella subintensiva respiri dentro dei caschi o delle maschere, la pressione di ossigeno positiva, ti viene spinta a forza l’aria nei polmoni, è il reparto più brutto, i pazienti sono svegli, terrorizzati spesso, soli sempre, tutto il giorno, possono contare solo su qualche parola scambiata con il personale che intanto intorno lavora. Aspettano l’ora della videochiamata con i parenti, solo per chi riesce a parlare: si fa il numero di telefono, lo si tiene davanti al volto del malato con la testa nel casco che parla, mentre di là piangono e anche lui poi piange e ti viene un nodo in gola quando vivi questa sofferenza.
Nella terapia intensiva io non entro ovviamente, ma i pazienti dormono intubati, spesso proni per qualche tempo perché migliora l’ossigenazione. Mi dicono che avvertendoli prima di addormentarli per mettergli il tubo in trachea, chiedano di salutargli tutta la famiglia in caso non si svegliassero più. Quando non si riesce a respirare, la sensazione della morte diventa immediata.
Li ho visti arrivare così in pronto soccorso, ti dicono i parenti che 2 ore prima avevano solo un minimo affanno, poi di colpo è successo tutto e i più deboli, i più anziani, poche ore dopo muoiono, anche loro soli. Lo comunichi ai parenti che sono rimasti in cortile ad aspettare.
Ecco quello che mi ha più colpito di questa epidemia. Si muore soli. Nessuno che ti tenga la mano se non un estraneo a cui ti aggrappi. E i parenti che si affliggono per tutte le cose che avrebbero voluto dire e non hanno detto.
I turni diurni e notturni nelle aree subintensive sono divisi tra tutti i medici dei vari reparti. Al termine del turno spesso le chat si riempiono di ringraziamenti per il sostegno avuto da tutti, perché da soli non valiamo niente. Anche questo ho imparato.
Rientro a casa con le strade deserte, ogni tanto un posto di blocco. Trovo mia moglie da oltre 8 ore davanti ad un computer per fare didattica a distanza, il collo e le spalle anchilosate, non ha incontrato nessuno durante tutto il giorno, ha parlato solo al telefono con qualche amica, non ce la fa più ed è nervosa.
Ecco, in quel momento, anche se può sembrare assurdo, penso di essere un uomo fortunato: io esco per andare al mio lavoro, vedo gente, parlo, scherzo sovente e ho anche la possibilità di emozionarmi.

Roberto S.