Israele e la democrazia sacrificata

Israele getta la maschera con la nuova legge sullo Stato-nazione

C’era una volta un valore ritenuto talmente importante da giustificare invasioni e guerre; così luminoso da innalzare chiunque lo accettasse come guida in un regno di progresso, modernità e giustizia; così indubitabile da divenire sinonimo delle parole più nobili: Libertà, Giustizia, Uguaglianza. Questo valore era la Democrazia, la cui favola ha ispirato gli ultimi secoli di storia, portando con sé indubitabili conquiste per l’umanità, insieme con ombre e mostri sapientemente nascosti sotto il tappeto.
Oggi, contagiati dal relativismo e dalla decostruzione smodata che caratterizza il nostro tempo, assistiamo nostro malgrado alla crisi della Democrazia, che da valore è scaduta sempre più in semplice retorica, attaccata dai critici, indebolita dai dissidenti, corrotta dai disonesti, violentata dagli estremisti, contraddetta dai fatti.

Decenni fa, quando ancora trionfava, la Democrazia ha ispirato la creazione di uno Stato; l’iniziativa venne intrapresa con la speranza che la nuova Nazione, territorio vergine per i più nobili progetti democratici, avrebbe portato con sé una ventata d’aria fresca dopo le tossiche esalazioni del nazismo e dell’Olocausto. Ecco, dunque, una bella lezione di storia e filosofia: cerchiamo una fonte, e troviamo la Dichiarazione di Indipendenza firmata dalla Comunità ebraica e dal Movimento Sionista il 14 maggio 1948, alla vigilia della creazione ufficiale dello Stato di Israele. Il messaggio è talmente chiaro da non aver bisogno di perifrasi: “Lo Stato […] incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace, come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso […] sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti”. Questi i principi, chiaramente democratici, a cui si è ispirato il processo di creazione dello Stato di Israele, oasi fieramente progressista nel cuore del Medio Oriente. D’altronde, si potrebbe pensare, quelli sopracitati e sottoscritti da onorevoli intellettuali e statisti ebrei, non sono che i requisiti formali minimi per giustificare la creazione di uno Stato che, nel concreto, ha implicato la diaspora di quasi la totalità di un popolo, che ancora oggi vive in esilio, e la riduzione dei pochi esponenti rimasti a minoranza in uno Stato dall’identità estranea e, inevitabilmente, avversa.

Ed ecco che, pochi giorni fa, viene approvata una legge che, di fatto, mette un bell’asterisco alla storia e ridimensiona, emenda, corregge, smussa i contorni di quella parola, “tutti”, che, pur essendo la Parola per eccellenza della Democrazia, ormai suona anacronistica dopo settant’anni di consolidamento delle istituzioni e della posizione internazionale di Israele. La cosiddetta “legge sullo Stato-nazione” approvata dalla Knesset lo scorso Giovedì 19 luglio ha aperto un inevitabile quanto doveroso dibattito sulla posizione sempre più controversa di Israele.
Dopo mesi di tensione e stupore di fronte alle violenze perpetrate dall’esercito israeliano sui palestinesi dei territori occupati, quella che si definisce come “l’unica democrazia del Medio Oriente” ha, di fatto, messo in crisi le condizioni di possibilità di una tale definizione, approvando un testo in cui molti vedono risvolti decisamente nazionalisti e discriminatori. La discussione sorta in questi giorni vede impegnati i sostenitori di una legge che viene presentata come “puramente dichiarativa” – priva, cioè, di effetti sostanziali nelle politiche israeliane – e, al fronte opposto, gli oppositori che invece vedono nel testo i segnali di una definitiva chiusura alle istanze del popolo palestinese.

Insomma, è evidente a molti che questa paladina della democrazia nelle distese selvagge del Medio Oriente non senta più il bisogno dello scudo di buonismo che la vedeva impegnata, almeno a livello di istituzioni (tristemente conosciamo la disillusione portata dai fatti), in un’opera di pacifica inclusione e mediazione con il popolo palestinese; è ora di scoprire le carte e di rivelare che, a questo punto, una soluzione di compromesso come quella dei due Stati, che rappresentava ancora la speranza della maggioranza dei palestinesi, non è più contemplata.

Hans Jonas è stato un filosofo tedesco del ‘900, autore del celebre volume “Il Principio responsabilità”

D’altronde, il testo ribadisce chiaramente che Israele è la patria storica del popolo ebraico, che detiene dunque esclusivamente il diritto di autodeterminazione nazionale (comma 1); la controparte storica, rappresentata dai palestinesi, viene così ufficialmente esclusa e interdetta dall’esercizio delle proprie aspirazioni identitarie. La terra appartiene, per legge, agli ebrei residenti in Israele e a quelli che desiderano trasferirvisi; qualunque istanza sulla terra portata avanti dalla minoranza araba viene implicitamente negata.

Preoccupante è anche il comma 8, che legittima apertamente ciò che finora era stato solo subdolamente attuato nella pratica: l’insediamento e lo sviluppo di comunità ebraiche, ora un “valore nazionale” a cui la legge (per ora) fornisce l’appoggio e l’incoraggiamento necessario. Non è difficile immaginare a scapito di chi. E se la rivista online Formiche tende a sdrammatizzare, evidenziando come la realtà delle “comunità residenziali omogenee” sia un fenomeno diffuso in Israele e riguardi sia ebrei che arabi, ha ragione Gideon Levy a puntualizzare, in un articolo tradotto anche su Internazionale, come tale fenomeno nella pratica abbia piuttosto i caratteri di una ghettizzazione; d’altronde, chiunque abbia occasione di recarsi in Israele in prima persona potrebbe facilmente constatarlo, operando un veloce paragone tra le moderne città ebraiche e i malmessi villaggi arabi, confrontando le architetture, l’umanità, gli sguardi, le atmosfere dei due mondi opposti che convivono nello Stato di Israele.
Difficile, dunque, immaginare come questa nuova legge, nonostante l’aspetto quasi innocuo, quasi di formalità, evidenziato con tanta enfasi dagli ideatori e dai sostenitori, nonostante il Primo Ministro Netanyahu la definisca come la conferma dell’identificazione tra Israele e Democrazia, possa sopperire alle evidenti disparità tra le varie etnie che popolano lo Stato di Israele e avvicinarsi ai principi originari della Dichiarazione del 1948.

Difficile anche, a questo punto, conciliare la realtà di Israele con l’ideale di Democrazia che ne ha ispirato la creazione e lo sviluppo, e che inoltre le ha fornito le basi per la fondamentale posizione internazionale che riveste oggi: che sia arrivato il momento di eliminare, per amore di coerenza, uno dei due poli?
In tal caso, è chiaro che Israele rimarrà lì dov’è ora, forte della sua concretezza e solidità politica ed economica, mentre la democrazia, in crisi un po’ dappertutto, può venire sacrificata senza troppe ripercussioni. Non ci saranno degli intransigenti e invadenti Stati Uniti che imporranno l’attuazione dei principi democratici; né un’Europa veramente indignata che sarà disposta a sacrificare gli ormai stellari benefici derivanti dai rapporti e dagli scambi (soprattutto in ambito militare) intrattenuti con lo Stato di Israele.

Ho accennato alla filosofia più sopra, mi si permetta di spendere due parole in proposito: notoriamente il pensiero ebraico ha apportato preziosi e inestimabili contributi alla storia delle idee. Nel corso del Novecento, troviamo molti pensatori di origine ebraica che aderiscono anche, in gradi diversi, al sionismo: un esempio è Hans Jonas, filosofo di grande importanza per la riflessione morale e bioetica, ma anche teologica e metafisica, che nel retrospettivo Memorie parla diffusamente delle proprie idee politiche. Il fatto che in un passo del libro l’autore ammetta apertamente che, nella sua entusiastica e attiva (anche militarmente) adesione al sionismo, prima dell’effettiva creazione dello Stato di Israele, non abbia mai preso veramente in considerazione il problema che sarebbe inevitabilmente emerso in relazione alla popolazione araba, appare come un apprezzabile atto di onestà intellettuale. Eppure, il fatto che chi ha scritto “Il Principio Responsabilità” sia caduto nell’errore di considerare la questione palestinese come secondaria in relazione al più grande progetto di costruzione di una patria per il popolo ebraico ci dice forse qualcosa sullo spirito che ha animato l’iniziativa.
La questione palestinese è forse sempre stata solo un effetto collaterale, mai un vero fattore di influenza, nel progetto sionista, che pur si ispira a ideali democratici se non, in certi casi, comunistici. Cosa rimane, di questi ideali illuminati, lo si può vedere nei canali mediatici di forte tendenza sionista come il sito dell’Associazione italo-israeliana israele.net, in cui l’opposizione tra ebrei e palestinesi viene presentata come uno scontro tra tifoserie travestito da “fine” satira. Ed ecco che risulta accurata la scelta della parola “farsa”, usata da Levy per descrivere l’immagine, di cui tutto il mondo ha finora fruito, di uno Stato israeliano “ebraico e democratico”.

È giunto quindi il momento di lasciare perdere le ipocrisie e annoverare anche Israele, roccaforte occidentale in Medio Oriente, nella deriva autoritaria che sta investendo gran parte dell’Europa e del cosiddetto “Primo Mondo”.
Ciò che Jeff Halper chiama “impegno astratto alla Democrazia”, che fornirebbe un sipario di correttezza e uguaglianza ai veri interessi di espropriazione ed espansione che si portano avanti dietro le quinte, va sempre più dissolvendosi, mentre sempre più importanza arriva a rivestire la parola Nazione, in nome della quale tutto è permesso, compresa l’aperta discriminazione, l’ingiustizia e la violenza. La contraddizione che emerge dalle idee di uno Stato per gli ebrei – e per gli ebrei soltanto – e di Democrazia è stata infine pubblicamente messa in evidenza: si tratta, ora, di prendere le misure necessarie per superarla.

Lara Barbara