La scuola come caos

Riceviamo a pubblichiamo la riflessione di Franco di Giorgi sulla scuola e sulla sua metamorfosi contemporanea

Gentile Direttore,
vorrei provare a ragionare intorno alle cause che, nel giro almeno di tre lustri (diciamo a partire dalla riforma Berlinguer), hanno prodotto la metamorfosi della scuola, la quale da luogo d’incontro spirituale è finita col diventare centro di intrattenimento.
Oggi infatti si può legittimamente parlare di scuola come di C.A.O.S, ossia di Centro di Assistenza o di Accoglienza con l’Opzione allo Studio.
Ha certamente ragione il professor Francesco Bruni (linguista e accademico della Crusca) quando sul Fatto Quotidiano (9 febbraio) precisa che il recente appello dei 600 docenti universitari, rivolto al Presidente del Consiglio al fine di arginare il declino dell’italiano a scuola, ha voluto essere un’accusa non già contro gli insegnanti e gli studenti, bensì contro i programmi ministeriali. I quali non possono non adeguarsi alla moderna civiltà telematica. Una civiltà che, com’è noto (ma di ciò però non si è del tutto consapevoli), si fonda con tutta evidenza sulla velocità e quindi sulla tendenza asintotica all’azzeramento del tempo e dello spazio.
Grazie alla telematica (tēle in greco significa “lontano”, “distanza”) e agli strumenti opportunamente approntati dalla tecnologia risulta infatti virtualmente possibile sia che tutto si dia nel presente, che si perda cioè la cognizione del passato e del futuro, sia che si annullino le distanze spaziali.
È quello che intende il professor Bruni quando parla di «presentismo». È forse a questo livello della telecomunicazione, cioè della comunicazione a distanza, che si possono rintracciare le ragioni della «malascrittura» e non già spostando le responsabilità a ritroso negli anni di formazione scolastica. La tendenza telematico-presentista non può naturalmente non far sentire i propri effetti anti-culturali sulle società e sulle loro istituzioni. Anzitutto nella scuola. Ogni acquisizione, infatti, ha sempre (non solo oggi) avuto necessariamente bisogno di uno spazio di distanziamento e di un tempo di sedimentazione, come condizioni a priori della conoscenza.
Nel XIX secolo Hegel parlava di “pazienza del concetto”. Una pazienza che oggi non ha più ragion d’essere, poiché l’esigenza della velocizzazione telematica non consente più di avvertire quella fertile distanza spazio-temporale che nell’esperienza dell’apprendimento si dà tra il momento dell’informazione a quello dell’acquisizione. Sicché, a causa dell’annullamento di una siffatta distanza, i due momenti finiscono con il coincidere, ottenendo così solo un sapere apparente, superficiale e quindi, come già ammoniva Platone, presuntuoso.
E questo, per riprendere proprio la lezione del Fedro platonico, non riguarda solo l’attività del pensare, ma vale anche e soprattutto per l’esperienza dello scrivere. Giacché non c’è niente più della scrittura ad aver bisogno di tempo. Basta solo leggere le lettere di Kafka per rendersene conto. Per questo magnifico scrittore, infatti, come pure per altri (Flaubert, Musil, Rilke, Proust), scrivere voleva dire vivere, respirare. Kant pensava scrivendo.
E tutti quanti noi abbiamo bisogno di tempo per sentirci vivere e per poter esprimere in parole quello che proviamo mentre respiriamo. Abbiamo bisogno di più tempo per contemplare quanto troviamo in noi, ancora di più tempo (finché ce ne resta) per meditare sui pensieri che abbiamo intimamente sviluppato grazie a quella contemplazione.
Abbiamo bisogno di questo tempo per sentire come esso passa attraverso il nostro respiro, sostenendoci e consumandoci. Ne abbiamo bisogno per descrivere noi stessi, i nostri paesaggi interiori, per scegliere quindi le nostre parole per esprimere quei paesaggi che vediamo solo noi e per dire cosa proviamo mentre li osserviamo con l’occhio dell’anima.
Abbiamo bisogno dunque di qualcosa di prezioso, di talmente prezioso che probabilmente nemmeno esiste. Quale è il tempo.
Ebbene – ha ragione a tal proposito Juan Carlos De Martin su Repubblica (7febbraio) – la scuola, l’università devono ricuperare il tempo perduto, devono ritornare ad occuparsi di questo sapere “inutile” che si nutre di un bene inesistente, allo scopo di far provare ai giovani l’esperienza malinconica e gioiosa dell’ex-sistere, dell’essere al mondo, il gusto intenso della vita, il sapore dolce della libertà. Per una volta sola. E mai più.

Franco Di Giorgi