La transizione ecologica: chi la desidera e chi no?

La transizione ecologica arriva “dall’alto” o la sua realizzazione dovrà includere anche strumenti per convincere a cambiare i comportamenti quotidiani “dal basso”?

Tanti anni fa Alexander Langer diceva che la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile.
Desiderio deriva dal latino de-sidera, letteralmente: mancanza di stelle. Senza stelle infatti un tempo non si poteva avere la fonte dei buoni presagi, dei buoni auspici, così desiderio è diventato sinonimo di volere intensamente. Come si può arrivare a percepire la transizione ecologica come voluta intensamente, desiderata “dal basso”?

Per affrontare la crisi climatica diventa urgente passare da una crescita indifferenziata di tipo estrattivo ad una crescita qualitativa di ordine rigenerativo, basata sui limiti della crescita (noti fin dal rapport del Club di Roma, 1972), sullo sviluppo sostenibile (1987) per arrivare finalmente all’economia circolare (2005), diventa urgente passare alle azioni concrete: da questa visione ne dovranno derivare infrastrutture, che indurranno pattern virtuosi composti da innumerevoli comportamenti quotidiani.

L’urgenza è ormai chiara dato che i risultati attesi sono molto ambiziosi: arrivare a ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 e azzerarle entro il 2050. Oggi questi non sono più sogni delle associazioni ambientaliste, sono nel target plan europeo, sono la condizione per ricevere finanziamenti per progetti sui quali l’Italia dovrà render conto dei risultati all’Europa.

Quali potrebbero essere le linee guida, le direttrici per questa fase implementativa? L’ultima pandemia ha fatto emergere la necessità di aumentare la resilienza delle comunità, di sentirsi parte di una rete di comunità, basata sulla partecipazione dal basso, dove le comunità e i territori diventano gli attori principali, comunità altamente resilienti, quindi interconnesse, aperte e solidali, con tre grandi direttrici: decarbonizzare, decentrare, digitalizzare.

Per arrivare ai comportamenti quotidiani si può partire dalle necessità primarie, da alcune domande elementari: come si alimenteranno queste comunità? Come gestiranno i loro rifiuti? Come genereranno energia? Come di sposteranno? Come useranno le tecnologie digitali?

1. Come si alimenteranno?

La filiera del cibo rappresenta uno dei pilastri della transizione ecologica, infatti circa il 24% dei gas-serra sono dovuti a agricoltura, uso del suolo, allevamenti intensivi. Un esempio di risultato atteso potrebbe: entro il 2030 il 70% del cibo proviene da una distanza max di cinquanta chilometri.

Questo richiede una gigantesca rivalutazione del mondo agricolo, con sostegni e incentivi all’agricoltura biologica, censimento delle terre non coltivate e loro affidamento alle giovani generazioni (meno del 10% degli agricoltori ha meno di quarantacinque anni), certificazione della giusta retribuzione ai lavoratori della filiera agroalimentare, incentivi ai produttori locali minimizzando la dipendenza dalle “reti lunghe” della grande distribuzione. Si dovranno organizzare le reti della logistica del cibo locale, con mercati rionali del cibo con produttori locali e negozi di vicinato. Incentivare orti urbani, orti sociali, orti scolastici. Si dovrà educare a una visione sistemica della filiera del cibo, dove tutto è connesso con tutto, con: incentivi al consumo di proteine vegetali (legumi secchi, frutta a guscio) e di frutta e verdura di stagione (quelle coltivate in serra richiedono quantità di energia dieci volte superiori), mense scolastiche con cibo biologico da produttori locali che garantiscono un pasto sano per tutti, servizi digitali di prenotazione per evitare lo spreco di cibo e il recupero dell’invenduto, campagne di informazione sui rischi (per la salute e l’ambiente) legati al consumo di carne. Una bella iniziativa: dare a tutte le mense collettive lo stesso obiettivo del 70% del cibo di provenienza locale entro il 2030.

2. Come gestiranno i loro rifiuti?

Un esempio di risultato atteso potrebbe essere: entro il 2030 arrivare a 50 Kg di rifiuti procapite prodotti ogni anno, per arrivate all’obiettivo di azzerare nel 2040 i rifiuti indifferenziati.

Questo richiede fortissimi incentivi alla riduzione dei rifiuti anche con passaggio da “imposta sui rifiuti” a “tariffa puntuale” con raccolta “porta a porta”, premiando le persone che producono meno rifiuti indifferenziati.

Sarà necessario incentivare l’economia circolare (ridurre, riusare, riparare,  riciclare), organizzare i “mercati dell’usato”, formare figure professionali di “riparatori” (il “diritto alla riparazione” è stato finalmente introdotto dal Parlamento Europeo da Novembre 2020) e di “riciclatori” capaci di estrarre  risorse  dai rifiuti (es.  le apparecchiature  elettriche ed elettroniche contenenti metalli rari e “terre rare”), incentivare il compostaggio domestico dell’organico fino ad arrivare alla produzione di biometano e compost di qualità con “digestori” appositi, incentivare il passaggio dal “possesso” all’ “uso” (economia della condivisione con nuovi modelli di business basati sul “prodotto  come servizio”,  incentivare la  riduzione  dei rifiuti con ricariche ecocompatibili e prodotti senza plastica, incentivare la vendita di prodotti ‘consumabili’ (es. il cibo) “sfusi”, incentivare le imprese che adottano i principi dell’economia circolare nella progettazione (80% dell’impatto ambientale è causato da ‘errori’ di progettazione) e nell’approvvigionamento (acquisti da fornitori circolari) anche con scuole di formazione di “ecodesign”, investire nel ciclo dell’acqua, con interventi sulle reti idriche e depuratori, educare  alla  diminuzione  dei rifiuti a  partire dagli acquisti con  attenzione al pianeta (prima di ogni acquisto fermarsi e riflettere su poche semplici domande: “da dove viene? quanto consuma? è riparabile? è riciclabile? dove va a finire?”). Una bella iniziativa: di fronte ad ogni negozio suggerire queste domande a chi entra per gli acquisti.

3. Come genereranno energia?

Dato che il 46% dei gas-serra sono dovuti ai settori industria e energia, questa domanda diventa centrale. Per una comunità altamente resiliente un risultato atteso potrebbe essere: entro il 2030 l’80% di energia consumata viene prodotta localmente da fonti rinnovabili.

Sarà fondamentale recepire finalmente la direttiva europea (EU2018/2001) sulle “comunità energetiche” che permettono di produrre, scambiare e accumulare energia rinnovabile localmente. Sarà necessario: coinvolgere gli enti locali come promotori delle comunità energetiche, a partire dall’installazione di fotovoltaico sui tetti pubblici. Avviare programmi locali per ridurre i consumi di energia (luci, riscaldamento) tramite certificazione energetica degli edifici e per produrre energia rinnovabile in ogni casa, quartiere, edificio, scuola fino ad incentivare il solare fotovoltaico anche in aree dismesse e integrandolo con le produzioni agricole (“agrivoltaico”). Ci sarà bisogno di formazione per nuove professionalità (risparmio energetico, smart-grid, sistemi di gestione energetica). Ogni comunità si dovrà dotare di un piano energetico locale (collegato al piano regionale e nazionale) mappando potenzialità dei territori su risparmio energetico e fonti rinnovabili (fotovoltaico, mini-idroelettrico, eolico, biogas). Bisognerà educare all’uso responsabile dell’energia e riscoprire l’importanza di un rapporto diverso con la natura incentivando la gestione forestale sostenibile con creazione di lavoro e tutela della biodiversità e la creazione di “boschi urbani”. Una bella iniziativa: dare a tutte le amministrazioni locali lo stesso obiettivo dell’80% dell’energia da loro consumata (scuole, edifici pubblici, etc.) prodotta localmente da fonti rinnovabili entro il 2030.

4. Come si sposteranno?

Il settore trasporti è responsabile del 14% dei gas serra quindi bisognerà rivedere il concetto stesso di mobilità. Un risultato atteso potrebbe essere: entro il 2030 il 70% degli spostamenti

viene fatto in bici o a piedi, il restante 30% con mezzi pubblici o mezzi elettrici (a partire dal parco auto pubblico). Infatti, a pensarci bene, una persona ha “bisogno di spostarsi”, non ha “bisogno di un’auto”. Questo semplice concetto sta guidando la rivoluzione della mobilità in molte città nel Nord Europa con modelli di business radicalmente diversi: si vendono servizi di mobilità, non auto o mezzi fisici. Anche nella mobilità si passa “dal possesso all’uso”, in sintonia con l’economia circolare. Sarà necessario incentivare gli spostamenti “lenti”, a piedi, in bici (il 50% degli spostamenti avviene in un raggio sotto i 3Km) con piste ciclabili e percorsi pedonali, centri logistici di quartiere per riparazione, parcheggio, noleggio, etc. di bici e mezzi elettrici. Sarà necessario: creare quartieri “car-free”, “città dei 15 min”, zone residenziali 30Km/h, senza traffico di attraversamento, progettare orari della città, servizi di prossimità, consegne a domicilio, mobilità condivisa. Per le lunghe distanze incentivare il trasporto ferroviario (anche riattivazione le linee ferroviarie e le stazioni dismesse!), progettare piste ciclabili intercomunali, interregionali, ciclovie (es. bici+treno). Saranno necessarie campagne di sensibilizzazione nelle scuole (vado a scuola in bici, a piedi), informando sugli impatti del traffico su salute e ambiente. Si potrebbe dotare ogni scuola di una centralina per il rilevamento delle polveri sottili e CO2. Una bella iniziativa: ogni scuola rileva regolarmente le modalità di spostamento degli studenti e ogni mese di discutono i dati, con l’obiettivo di portare il 70% degli spostamenti in bici o a piedi entro il 2030.

5. Come useranno le tecnologie digitali?

Per ora solo circa il 4% dei gas-serra sono dovuti al settore digitale (data center, rete, dispositivi, produzione, smaltimento) però le tendenze sono molto preoccupanti: entro il 2030 circa il 20% dell’elettricità del pianeta sarà consumata per usare i bit. D’altra parte vi sono ancora molte opportunità per usare i bit per consumare meno energia. I risultati attesi potrebbero essere: entro il 2030 copertura banda larga al 95% della popolazione e 99% dei servizi pubblici facilmente accessibili in forma digitale. La rete è diventata un servizio pubblico essenziale come l’acqua e l’energia quindi va garantito l’accesso universale anche nei piccoli comuni montani. Incentivare l’uso di dispositivi riparabili, riciclabili (es. fairphone) a basso consumo di energia unita a una alfabetizzazione digitale e educazione all’uso responsabile delle tecnologie (“saggezza digitale”, etica digitale) e dei dati personali, la gestione dei dati come bene comune, dati in formati aperti, corredati da metadati in modo che siano facilmente riutilizzabili, collegabili, rintracciabili, accessibili, interoperabili, uso di mappe libere da copyright nelle pubbliche amministrazioni, nelle scuole (es. open street map), adozione di software libero e formati aperti nelle organizzazioni pubbliche (D.Lgs.n.82/2005), servizi pubblici digitali per le scuole su server della scuola pubblica con dati gestiti localmente (es. in collaborazione con centri di ricerca, università, CNR, GARR), progettare servizi pubblici digitali insieme ai cittadini, centrati sugli umani, rispettosi delle diversità, con elevati livelli di sicurezza (resistenti a guasti e intrusioni) e basati su tecnologie aperte. Servizi pubblici digitali per gestire la filiera del cibo, la corretta gestione dei rifiuti, informazioni sull’energia e sulla mobilità. Una bella iniziativa: a partire dalla scuola primaria avviare percorsi di superamento del divario digitale e di educazione a un uso delle tecnologie basato su una “saggezza digitale”.

Le giovani generazioni potrebbero desiderare un sistema economico non più basato sulla competizione ma sulla collaborazione. Potrebbero desiderare una scienza e una tecnica non più strumenti di dominio sulla natura,  ma processi di  conoscenza  che  aiutano  a convivere  con  i cicli naturali e ne rispettano la complessità.

Potrebbe essere molto desiderabile riscoprire l’etica del futuro delle comunità dei popoli nativi che, come spiegava la scienziata Elinor Ostrom, sono riusciti a gestire i beni comuni con l’economia circolare per millenni (Ostrom, 2006).

Potrebbe essere desiderabile vivere in una comunità altamente resiliente con cibo sano e prodotto localmente in modo pulito e giusto, con una vita estesa dei prodotti progettati fin dall’inizio per rigenerare i sistemi naturali, dove la maggior parte dell’energia consumata viene prodotta localmente con fonti rinnovabili e scambiata tra pari, dove il digitale viene usato con saggezza rallentando i ritmi forsennati del consumo di informazioni e dei dispositivi elettronici, liberando il tempo per curare di più le relazioni.

Cosa si oppone a questa desiderabilità? Chi è che dice no grazie tutto questo per me non è desiderabile? Proviamo a capire anche ci non è d’accordo, evitando di alzare barriere, anzi, cercando un dialogo costruttivo.

Molte ricercatrici (Stoknes, 2015) ci aiutano a capire queste “barriere”.

Una prima barriera è quella della “distanza spazio-tempo“: molti considerano il riscaldamento globale come una cosa remota, invisibile, i ghiacciai sono lontani: “non tocca me, ai miei figli, … se succederà qualcosa sarà tra tanti anni, … ho altre cose da fare oggi“. Oppure, in modo più forte e provocatorio: “non mi preoccupa la fine del mondo, mi preoccupa arrivare alla fine del mese“.

Una bella iniziativa: usare “non solo dati scientifici” ma anche immaginazione, creatività, arte per comunicare l’attualità del cambiamento climatico, nella nostra generazione, non in un futuro remoto. Su questo fronte diventa necessario rendere il riscaldamento globale come una questione vicina, umana, personale e urgente.

Una seconda barriera è quella della “rifiuto della catastrofe“: “il riscaldamento globale mi viene presentato come un disastro che atterrisce, provocherà perdite, costi, sacrifici, non è un argomento piacevole … dato che mancano soluzioni immediate allora mi fa sentire incapace di agire …“.

Una bella iniziativa: usare “non solo dati scientifici” ma anche immaginazione, creatività, arte per comunicare cause, effetti e soluzioni ravvicinate, a portata di mano. A questo bisogna preparare risposte valide, “strategie positive”, usare quadri di riferimento positivi che non scatenano sensazioni negative di rifiuto.

Una terza barriera più grande è quella dovuta alla “discordanza“: “il riscaldamento globale, la questione dei fossili è talmente in conflitto con quello che faccio quotidianamente (bruciando fossili, guidando, volando, mangiando carne in quantità, etc.) che scatena un sentimento di discordanza che mi fa star male allora scatta la difesa, minimizzo per non star male, minimizzare mi fa star meglio…“.

Una bella iniziativa: usare “non solo dati scientifici” ma anche immaginazione, creatività, arte per comunicare possibili strategie positive e progressive, piccoli passi ma nella direzione giusta. La risposta deve puntare a ridurre la dissonanza, fornendo opportunità concrete per azioni visibili e consistenti.

Una quarta barriera ancora più elevata è quella della “negazione“: “per evitare la paura o i sensi di colpa comincio a negare, ignorare, evitare, … vado a cercare i ‘negazionisti’ e parlo solo con loro, ignoro le altre posizioni, comincio a star meglio perché ho una risposta (negazionista), una autodifesa (diversa dall’ignoranza, mancanza di informazione)“.

Una bella iniziativa: usare “non solo dati scientifici” ma anche immaginazione, creatività, arte per comunicare possibili strategie positive e progressive, piccoli passi ma nella direzione giusta. In questo caso la risposta richiede di essere molto elaborata per evitare di attivare la paura, i sensi di colpa, l’autodifesa perché queste reazioni attivano il bisogno emotivo per la negazione.

La quinta e più difficile barriera è quella della “identità“, l’ultima linea di difesa: “comincio a filtrare le notizie, cerco solo informazioni che confermano le posizioni ‘negazioniste’, i miei valori, nozioni, cancello tutto quello che mette in crisi le mie convinzioni, la mia ‘identità culturale’ è più importante dei fatti che vengono descritti e se informazioni nuove mi richiedono di cambiare allora le censuro, non cambio la mia identità…“.

Una bella iniziativa: usare “non solo dati scientifici” ma anche immaginazione, creatività, arte per comunicare senza polarizzare e smascherare i “social influencer” finanziati dai big del fossile. Come noto, purtroppo la rete e in particolare i social network hanno fatto molti affari proprio facilitando questo gioco: offrono servizi “gratuiti” in cambio di questi “filtri di identità”, mettendo a rischio il pensiero critico, il metodo scientifico, creando un “caos epistemico”. In molti casi i “negazionisti climatici” sono dei veri e propri think-tank che agiscono sui social ma sono finanziati dai titani del fossile (Laville, 2019). Quest’ultima barriera è un macigno e richiede di ridurre la polarizzazione culturale, politica tipica dei social network, con interventi anche a livello normativo.

La transizione ecologica diventerà desiderabile anche attraverso la conoscenza delle barriere culturali e psicologiche al cambiamento. Un modo per aggirarle è quello di focalizzarsi su strategie positive, agire come “cittadini sociali”, non come individui solitari.

Una strategia positiva non deve essere uno sforzo “puritano”, punitivo, che rimanda la gratificazione a un futuro remoto, deve accompagnarsi con la gioia della vita stessa, della bellezza, del piacere. Affrontare il cambiamento climatico come “assicurazione contro il rischio”: migliora la qualità della vita nell’immediato, migliora la resilienza delle comunità, si basa su valori comuni con un grande significato etico verso le future generazioni e nel frattempo, offre pure opportunità di lavoro e innovazione.

Tutto questo potrebbe aiutare a sognare una società più sobria nei consumi, più ricca nelle relazioni, più solidale, potrebbe aiutare a desiderare la transizione ecologica.

Norberto Patrignani

Riferimenti:

  • Laville, e al. (10 Ott, 2019). Fossil fuel firms’ social media fightback against climate action. The Guardian.
  • Ostrom, E. (2006). Governare i beni collettivi.
  • Stoknes, P.E. (2015). What we think about when we try not to think about global warming. Chelsea Green