Le due velocità dei processi No Tav

La storia del doppio standard della magistratura torinese nei confronti del movimento No Tav e perchè tutto inizia da noi

Il 17 dicembre del 2020 a Torino si è concluso con un piccolo ma interessante colpo di scena l’appello bis al maxiprocesso contro gli attivisti del movimento No Tav per i disordini durante lo sgombero del presidio della Libera Repubblica della Maddalena e per il successivo attacco al cantiere, datati rispettivamente 27 giugno e 3 luglio 2011. Il primo verdetto del 2016 al maxiprocesso, tenutosi nell’aula bunker delle Vallette e che contava all’epoca 53 imputati e sanciva 47 condanne e un totale di 140 anni di condanna, venne bocciato dalla Cassazione nel 2018 per diversi motivi: un uso “disinvolto” dell’accusa di concorso esterno in reato, la mancata concessione di attenuanti dovute al contesto confuso e concitato in cui si sono svolti i fatti, la non valida costituzione di parte civile da parte dei sindacati di polizia.
La novità dell’ultimo appello arriva però da Stefano Bertone, avvocato della difesa, con la richiesta di deposito nel fascicolo giudiziario di alcuni atti tra cui un fax, datato 2014, dell’allora magistrato Marcello Maddalena al pm Andrea Padalino, che al tempo rappresentava insieme ad Antonio Rinaudo lo “zoccolo duro” del pool di magistrati impegnati nei processi ai No Tav. All’interno del fax, Maddalena richiedeva a Padalino informazioni riguardo la conclusione delle indagini preliminari nel processo per diffamazione contro l’ex senatore Stefano Esposito da parte delle attiviste No Tav Nicoletta Dosio e Dana Lauriola. Indagini preliminari la cui conclusione era più volte stata annunciata oralmente, ma senza che alle promesse seguissero mai fatti concreti. Per l’avvocato Bertone, questa sarebbe la prova di una tesi sostenuta da anni dalla difesa, ovvero che i processi riguardanti i No Tav avrebbero seguito due velocità e un doppio standard quando gli attivisti si trovavano imputati, con una giustizia esemplare e veloce, rispetto a quando erano parte offesa, con processi lunghi e spesso archiviati.
La richiesta di deposito viene respinta e le accuse vengono rispedite al mittente dalla procura generale, rappresentata in persona dal pg Francesco Saluzzo (che chiederà di mettere a verbale le accuse dell’avvocato), assieme ai pm Carlo Pellicano e Nicoletta Quaglino. Sarà tuttavia proprio quest’ultima a chiedere alla Corte che gli atti vengano spediti alla procura di Milano, incaricata di vigilare e valutare le attività dei magistrati torinesi. La sentenza è rimandata al 21 gennaio, ma la trasmissione degli atti alla procura milanese è un notevole precedente: la mancata ammissione della richiesta di deposito della lettera non è un fatto nuovo, nel tempo sono state respinte arbitrariamente le richieste di far entrare nel fascicolo della magistratura diversi atti di un certo spessore, come l’informativa dei carabinieri dell’inchiesta Minotauro sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nei lavori per l’alta velocità o il manuale sull’uso dei lacrimogeni che secondo la difesa dimostrerebbe l’illegittimità dell’operato delle forze dell’ordine.
Lo stesso destinatario del fax dovrebbe far drizzare le orecchie, seppur per altri motivi: Andrea Padalino è oggi caduto in disgrazia a causa dell’inchiesta che lo vedrebbe al centro della “cricca dei favori”, dove l’ex pm usava il proprio potere giudiziario in cambio di “regali”. Ora è accusato di corruzione e abuso d’ufficio.
Se state perdendo il filo non preoccupatevi, è normale.

Facciamo un passo indietro: Padalino e Rinaudo subentrarono a Giuseppe Ferrando (oggi Procuratore Capo di Ivrea), in appoggio a Nicoletta Quaglino e Manuela Pedrotta, nel pool di magistrati (nato nel 2010 per volontà dell’allora Procuratore Capo Gian Carlo Caselli) impegnati nelle indagini sul movimento No Tav. Diventati in breve tempo il nucleo duro del gruppo, verranno allontanati dal team nel 2014 dal procuratore Armando Spataro. A differenza del suo collega decaduto, Rinaudo è oggi responsabile dell’Unità di crisi regionale, che si occupa del controllo della pandemia in Piemonte. Questo nonostante diverse accuse riguardanti telefonate  e cene un po’ troppo amichevoli con Antonio Esposito (conosciuto come “Tonino” e “‘o Americano”), emissario torinese del boss ‘ndranghetista Rocco Lo Presti, il “boss della Val Susa”, le cui attività criminali avevano condotto nel 1995 allo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia (primo caso nel nord Italia). Dopo gli scontri del 26 ottobre scorso a Torino, Rinaudo sarà tra quelli che sosterranno la tesi della regia mafiosa dietro le rivolte.

I dati dei processi e le due velocità del “Caso Torino”

Anche analizzando i dati relativi ai processi ci si può rendere conto che quella mossa dall’avvocato difensore Bertone non è un’accusa infondata: il primo incremento vertiginoso delle notizie di reato verso gli attivisti No Tav si ha nel 2010, a causa sia della della radicalità espressa dal movimento a fronte dei primi passi concreti mossi dalla compagine promotrice, sia alla nascita del pool di magistrati voluto da Caselli. Per un abbassamento netto dovremo attendere fino al 2014, curiosamente lo stesso anno in cui Padalino e Rinaudo escono di scena.
Ma non è solo una questione di numeri: vi è anche ad esempio un sovradimensionamento dei fatti di reato, che si concretizza in un’elefantiasi delle accuse (che ad esempio da danneggiamento diventano terrorismo), un abuso dell’uso del concorso in reato, le aggravanti contestate in quasi ogni singolo caso e le misure cautelari applicate senza distinzione.
Vi è poi la questione della doppia velocità, con processi “ad alta velocità” quando gli accusati sono attivisti No Tav ( meno di 300 giorni) rispetto a qualsiasi altro processo monocratico ( la media nazionale supera i 600 giorni), e l’uso aggressivo di sanzioni economiche affiancate ai tradizionali mezzi coercitivi.
Il fatto più interessante accade però nei successivi gradi di giudizio: i giudici emettono, nella quasi totalità dei casi, delle sentenze di riforma della sentenza appellata, pur spesso trattandosi di riforme parziali. La “mitigazione” diventa ancor più evidente nei pochi ricorsi in Cassazione, per cui è possibile parlare di un vero e proprio “Caso Torino”, ovvero un cortocircuito tra la cultura giuridica locale torinese e la suprema corte, la quale, pur non mancando mai di fare emergere la particolare gravità degli atti, emette pronunce sistematicamente in contrasto sia con quanto stabilito dal tribunale torinese che con l’impianto accusatorio della procura.

I casi concreti e perché tutto parte da noi

I casi di abuso da parte di forze dell’ordine e magistratura costellano la storia dei No Tav fin dai suoi albori: si pensi all’operazione Hunter, con cui il movimento denunciò il pestaggio di due manifestanti arrestati dalle forze dell’ordine nella giornata del 3 luglio e riportata nel docu/film “Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Val di Susa”, ma anche ai 4357 fumogeni al CS lanciati sempre lo stesso giorno. Più recentemente abbiamo visto i casi di Dana Lauriola, condannata a due anni per aver utilizzato un megafono durante un’azione dimostrativa pacifica sull’autostrada Torino-Bardonecchia, di Maria Edgarda “Eddi” Marcucci, sottoposta a sorveglianza speciale dopo aver combattuto in Siria a fianco delle milizie curde contro l’ISIS, ritenuta socialmente pericolosa una volta tornata in Italia a causa della sua vicinanza con il movimento No Tav.
Ma se vogliamo risalire all’inizio di questi abusi giuridici, bisogna guardare molto più indietro, eppure molto più vicino: nel marzo 1998 muore suicida in carcere Edoardo Massari, detto “Baleno”, nato a Brosso. A pochi mesi di distanza, la fidanzata Maria Soledad Rosas, detta “Sole”, compirà lo stesso gesto. Accusati ingiustamente di aver compiuto azioni eco-terroristiche nel torinese da parte del pm Maurizio Laudi, il caso verrà gonfiato dai media desiderosi di dare in pasto al pubblico i “mostri anarchici”. La storia meriterebbe un articolo a parte, soprattutto per gli strascichi che ancora oggi ha lasciato nel movimento e nella mente di chi “Sole e Baleno” li ha conosciuti. Silvano Pelissero, accusato insieme a loro, verrà condannato solo per reati minori e mai per terrorismo.
La lettera che l’avvocato Bertone è riuscito a far trasferire alla procura milanese è oggettivamente un fatto piccolo, ma potrebbe essere il primo passo perché qualcosa cambi nel “Caso Torino” e per un’applicazione della giustizia slegata da un intento politico.

La lotta No Tav va avanti da più di trent’anni, durante i quali gli abusi polizieschi e giudiziari sono diventati la norma, escludendo di fatto qualsiasi possibile trattativa con il movimento che nelle istituzioni ormai non ripone più fiducia, e che dalle istituzioni è ricambiato nell’ostilità.
La prima settimana di iniziative No Tav dell’anno si è appena conclusa, si è svolta per lo più al presidio di San Didiero. Giovedì 7 si è spostato sotto il carcere delle Vallette per portare solidarietà a Dana Lauriola e Fabiola De Costanzo, quest’ultima da poco condannata a due anni di reclusione. Il 10 una passeggiata verso il presidio permanente dei mulini antichi, in Clarea, a pochi metri dall’allargamento del cantiere, trova la strada sbarrata da una cancellata di ferro. Al tentativo di aprire un varco nello sbarramento, la Polizia ha risposto con il lancio di lacrimogeni, che però si sono spenti nella neve.
Attendendo il 21 gennaio per la sentenza dell’appello bis al maxiprocesso, confidiamo che l’anno nuovo porti dei cambiamenti radicali anche nel “Caso Torino” e nella lotta No Tav.

Lorenzo Zaccagnini