Maledetti architetti, 1

Maledetti architetti, 1: Architetti e architetture: razionalismo italiano; Figini e Pollini: Ivrea-Patrimonio dell’Umanità Unesco

P. Domene, 22.09.20

Diciamocelo subito: cosa avranno mai queste case e queste fabbriche di Ivrea per essere Patrimonio dell’Umanità? Ma… vi rendente conto? Patrimonio dell’Umanità! Come il Partenone di Atene, o la Villa Adriana di Roma, o Santa Sofia di Istanbul, o l’Alhambra di Granada, o la Sagrada Familia di Barcellona… Davvero, non stiamo esagerando un po’? Patrimonio dell’Umanità? Mah… Avete visto quelle case a schiera scendendo da via Pinchia? Patrimonio dell’Umanità! Sono pure brutte… sembrano caserme. E la ICO, la fabbrica “del Pino”, cosa ha di così importante? E poi, cosa ce ne facciamo dell’Unesco? Credete che arriveranno a frotte i turisti come a Barcellona, a Roma o a Istanbul? Mah…

Sì. Al di fuori del circolo degli intenditori, e anche tra questi, la perplessità sul valore e il senso delle architetture olivettiane c’è. Nella stessa città di Ivrea ed altrove. Per strada, e anche all’interno delle istituzioni le quali stentano a trovare il modo di gestire la questione: per disinteresse, per scetticismo o per obiettiva difficoltà ad assumere i costi, in una fatale e liberista ottica costi-benefici, mentre arrivano, se arriveranno, i benefici.

Eppure, anche questo lo dico subito, io non vedevo l’ora che le architetture olivettiane di Ivrea fossero Patrimonio dell’Umanità. “Addirittura”… dirà sornione qualcuno. E sì, lo meritavano eccome!

Ci sono ragioni personali: ho vissuto e vivo, da molti anni, tra queste, in queste architetture; ho imparato, sì, ad apprezzarle e, sì, a godermele come mi godo il Partenone o l’Alhambra. A percepire la loro specificità rispetto a, diciamo, altre architetture “simili”, a cogliere la loro significativa differenza, la loro eccezionalità. Mi emoziona, sì, mi emoziona, la bellezza, sì, sì, proprio la bellezza pura, chi lo direbbe, quasi dolente, senza appigli, geometrica, ortogonale, delle loro forme finali. Soprattutto, precisamente, mi coinvolgono le architetture di Figini e Pollini, e proprio le case a schiera, le case per famiglie numerose, del 1940, quelle “brutte” come caserme che si vedono scendendo da via Pinchia, e la ICO centrale, del 1933-39, quella che non si sa cosa ha d’interessante. Entrambe, indissolubilmente, sono il fulcro, il seme dal quale è cresciuto il grande e ben ramificato albero che costituisce l’intero, straordinario complesso delle architetture olivettiane. Il crogiolo nel quale si fondono e prendono senso, e unitarietà nella differenza, il resto delle opere.

Ma ci sono anche ragioni più obiettive: il fulcro delle architetture olivettiane, appunto le case per famiglie numerose, e la fabbrica ICO centrale di Figini e Pollini , si distinguono nettamente per la loro specificità, pur rimanendo costanti sulla loro scia, sia delle opere del grande movimento moderno della architettura altrimenti chiamato stile internazionale (Bauhaus, The Stilj, Mies van der Rohe, Le Corbusier…), sia di quelle della variante dello stile internazionale che hanno chiamato con sottile campanilismo “razionalismo italiano” e che è piuttosto, mi si permetta il termine, una vera “accozzaglia” ricca di malintesi e confusioni ancora da chiarire (solo per chi bazzica questi argomenti: come mettere nello stesso calderone il gruppo dei 7 o il Nizzoli o il Fiocchi di Ivrea, con Mazzoni, Rapissardi, Brassani, Pilotti o Michelucci…?).

Se le opere della Bauhaus sono patrimonio dell’Umanità dal 1986, la Casa Rietveld (The Stlij) dal 2000, il Padiglione Barcellona di Van der Rohe dal 2002, il lavori di Le Corbusier dal 2016, è giusto che le opere di Figini e Pollini di Ivrea lo siano dal 2018. “Ma scherzi”, dirà qualcuno, “Gropius, Van der Rohe, Rietveld, Le Corbusier, sono mostri sacri dell’Architettura, origine e fine dell’Architettura moderna, gente famosa, vuoi mettere? Ma chi li conosce questi Figini e Pollini? Queste giovinastri che erano trentenni quando i mostri erano cinquantenni e avevano già stupito il mondo con le loro novità “. Infatti, chi li conosce, questi Figini e Pollini?

Non è ozioso, comunque, chiedersi perché mai, essendo così “famosi” questi grandi mostri, le loro opere abbiano impiegato tanto per diventare patrimonio dell’Umanità, e perché le opere razionaliste in Ivrea di Figini e Pollini lo siano diventate subito dopo, pur essendo meno importanti e meno conosciute.

Non è ozioso perché le opere dei famosi architetti dello stile internazionale, al di là del loro valore storico e dell’idealismo della loro impostazione teorica iniziale (e, bisogna dirlo, della forte attrazione “turistica” delle loro opere più iconiche) sono state soggette a feroci critiche, spesso giustificate, fino ai tardi anni 80, e ancora oggi. Critiche riguardanti la loro ambiguità politica e sociale, i loro problemi tecnici, la loro mancanza di funzionalità e il loro spiazzante aspetto formale. Critiche dure. Maledetti architetti! Avete sentito bene: così vengono apostrofati, ancora nel 1981, in un libro spassoso e seriamente dissacrante del lucido e sempre preparato Tom Wolfe: maledetti architetti!

Mi sono chiesto se il lucido Tom Wolfe avrebbe fatto le stesse critiche alle opere di Figini e Pollini, nel caso le avesse conosciute. Ma come le poteva conoscere se Figini e Pollini erano due emeriti sconosciuti? La mia ipotesi è che non le avrebbe criticate. Non le avrebbe criticate perché le opere di Ivrea di Figini e Pollini sono (forse esagero un po’) la mostra della compiutezza e della perfezione che i loro maestri, nonostante la buona volontà teorica, non erano riusciti a mettere in pratica.

Ma anche nell’emblematico 1981, nell’introduzione a un libro proprio su Figini e Pollini, un suo grande conoscitore, l’architetto Vittorio Gregotti, seminava dubbi sull’importanza del “razionalismo italiano” e sulla sua sostanziale misconoscenza, nonostante i molti studi sul tema. Le opere eporediesi di Figini e Pollini rimanevano comunque circondate da un mistero che le ha tenute in salvo da critiche estemporanee, ma che le ha rese anche impossibilitate a mostrare ai più la loro specificità, il loro ruolo, sia nel contesto dello stile internazionale sia in quello del razionalismo italiano.

Qual è questo ruolo e in che misura la sua comprensione può aiutare a capire meglio la dimensione culturale, artistica e funzionale di queste opere? Come possiamo, semmai fosse necessario, imparare a capirle e a godercele come ormai abbiamo imparato a capire e a goderci, così, senza pensarci troppo (non sempre è stato così) il Partenone, Santa Sofia o la Sagrada Familia?

Ma forse è il caso fermarsi qui. Ci risentiamo al più presto.

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