Maledetti architetti, 3

Maledetti architetti, 3: Architetti e architetture: olivettismo; razionalismo olivettiano; Adriano Olivetti, Figini e Pollini: Ivrea-Patrimonio dell’Umanità Unesco

P. Domene, 24.09.20

Nel 1981 Tom Wolfe nel suo “Maledetti architetti” evidenziava, pur riconoscendone la valenza progettuale, le contraddizioni e i fallimenti, nella pratica, dell’architettura generata dallo stile internazionale; Gregotti, dal canto suo suggeriva una sudditanza del razionalismo italiano dallo stile internazionale, segnalava anche ambiguità e confusione rispetto al concetto e all’ampiezza di questo razionalismo ed inoltre una significativa ignoranza sulle dinamiche del movimento e sulla sua specificità.

Il panorama che ci offre il 2020 è diverso: rispetto allo stile internazionale i quaranta anni passati sono serviti a confermare, sì, le critiche di Wolfe, e anche l’ideologismo moralizzante di matrice socialista del movimento, un movimento che ben presto si era accomodato alle esigenze della borghesia capitalista che tanto aveva criticato, con la sua sequela di opere scadenti, lontane dal progetto iniziale, appena vivibili. Questi anni sono serviti per confermare, però, l’influenza del movimento nel modificare la filosofia stessa del costruire e dell’abitare, mediante modelli teorici la cui efficienza è oggi ampliamente riconosciuta. Lo stile internazionale arrivò per rimanere, anzi, oggi ha una corrente manieristica ed epigonale, un po’ asettica e inquietante, che imperversa tra i nuovi ricchi di ogni luogo.

Rispetto al razionalismo italiano, il 2020 ci trova più consapevoli della correttezza delle ipotesi che Gregotti suggeriva nel ’81, ma anche più pronti a individuare la specificità, se c’è, del razionalismo italiano. Gregotti avrebbe ragione: il razionalismo italiano, come lo spagnolo, il messicano o l’americano sarebbe da inglobare, tout court, nella corrente generale dello stile internazionale. Meandri dello stesso fiume.

E dove risiederebbe allora la specificità “italiana” del razionalismo come elemento dello stile internazionale, casomai ci fosse? Nell’olivettismo. Ecco la parola chiave: olivettismo. Questa è l’ipotesi più plausibile e la più ragionevole: dal 1930 al 1960 circa, partendo da Ivrea, i principi fondativi dello stile internazionale vengono applicati con sorprendente successo. L’ottimizzazione dei processi costruttivi e la progettazione partecipata sono alla base di questo successo. L’utopia che Gropius o Mies van der Rohe (proprio per le deficienze nei processi costruttivi e nella progettazione partecipata) trovano difficoltà a realizzare, viene resa realtà a Ivrea. Le Corbusier assediato dai propri fallimenti è consapevole di quel che succede (raccontano che disse: “Via Jervis ad Ivrea è la via più bella del mondo”). Wolfe, lucido e obiettivo, dovrebbe rivalutare quanto detto in “Maledetti architetti”. Gregotti sicuramente confermerebbe: il razionalismo olivettiano è la variante specifica dello stile internazionale (per la praxis efficiente, per la qualità e per il rigore dei processi costruttivi, per le raggiunte sinergie tra gli elementi del processo, quindi, non per i principi, che restano immutati). L’olivettismo conferisce protagonismo al razionalismo italiano e lo redime dal suo ruolo periferico.

I fatti ci sono: intorno a gli anni ’30, a Ivrea, il trentenne Adriano Olivetti fa l’imprenditore indipendente, ma è fortemente impegnato nella vita politica; è al corrente delle spinte che il socialismo mussoliniano del dopoguerra esercita sulla vita economica e della sofferta dialettica di quello con il popolarismo cattolico; e anche consapevole delle spinte verso forme di socializzazione, e di concertazione capitale-lavoro, che la socialdemocrazia tedesca porta avanti; conosce di prima mano il progetto roosveltiano del New Deal; è in grado quindi, di avviare quello che noi oggi chiameremo “un modello resiliente verso la sostenibilità”, cioè la creazione di un sistema imprenditoriale fortemente autonomo ed autosufficiente, al più possibile al riparo dell’interventismo dello Stato, capace di conservarsi nel tempo adattandosi per diventare sostenibile: il capitale guadagna, il lavoro guadagna, il conflitto tra classi si attutisce, il tutto in un contesto che tiene conto della territorialità (il concetto di comunità socio-territorale e già in nuce). Interessato all’urbanistica è già consapevole che l’ordine sociale presuppone l’ordine urbano, va raggiunto quindi un equilibrio tra persona-città-territorio. Ciò suppone un sistema stratificato di diritti e doveri dove ogni parte sociale trovi confortevole collocazione. D’altra parte l’Ivrea olivettiana è ormai un incubatoio di quello che oggi chiameremo progettazione partecipata.

Gi urbanisti e architetti dello stile internazionale fanno per lui; conosce già i coetanei Figini e Pollini (che partecipano a pieno negli sviluppi del nuovo movimento in architettura), li porta a Ivrea e si dà inizio a un progetto teso naturalmente al successo. I convinti razionalisti Figini e Pollini si trovano, dal canto loro, un ambiente protetto e collaborativo, confortevole, ricco di mezzi, ma anche esigente nella definizione dei progetti e nella pianificazione delle esecuzioni, lontano delle pastoie della burocrazie, della strumentalizzazione politica e dell’avidità del capitale liberista. Trovano anche, ed è fondamentale, dei servizi tecnici e delle maestranze capaci di apportare il loro saper fare artigianale alle esigenze dei progetti. E un ambiente di co-partecipazione che aggiunge valore ai contributi di maestranze, tecnici, designer, ingegneri, sociologi… Il luogo ideale per realizzare l’Utopia. Che il tempo ha dimostrato poi essere possibile.

Il Razionalismo olivettiano, è, quindi, la chiave di volta che, per trent’anni, sostiene uno degli sviluppi più efficaci e significativi (nonostante la sua limitata estensione) della cultura del XX secolo. Il Razionalismo olivettiano è il punto di incontro tra gli elementi territoriali che ogni architettura assimila, in questo caso italiani, e i principi teorici, in questo caso quelli dello stile internazionale, che la definiscono.

Un confronto tra i principi dello stile internazionale e le opere del razionalismo olivettiano dovrebbero confermarci la validità di quanto affermato finora. Ma a questo si accennerà prossimamente.

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