«Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?»

Il «Perlasca» di Alessandro Albertin al liceo Gramsci di Ivrea per la Giornata dei Giusti dell’umanità
«Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?». Una domanda sconvolgente per la coscienza di ognuno di noi.

Il 10 maggio 2012 il Parlamento di Strasburgo ha approvato una dichiarazione per istituire il 6 marzo una Giornata europea in memoria dei Giusti. Il 7 dicembre 2017 l’ha approvato anche il Parlamento italiano definendola Giornata dei Giusti dell’umanità. Il 6 marzo di quest’anno anche noi abbiamo dunque celebrato quest’altra Giornata della Memoria. «Le storie dei giusti – ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso celebrativo e inaugurale – (..) sono memoria viva, e continueranno a essere esempi di civiltà e di umanità a cui ispirarsi. Trasmettere questa memoria alle generazioni più giovani è opera di straordinaria importanza, perché, come sappiamo, i germi dell’odio e della discriminazione non sono mai sconfitti una volta per tutte. L’azione educativa, a partire dalle scuole, è indispensabile per costruire il futuro» (corsivi nostri).
E in effetti l’intensa performance di Alessandro Albertin (programmata per l’8 marzo nel liceo Gramsci di Ivrea) è riuscita a trasmettere davvero ai più di trecento studenti una pagina esemplare della memoria viva della storia. Da solo, incarnando di volta in volta l’anima e la voce dei diversi personaggi del dramma, muovendosi su una scena scarna, fatta solo di due cubi neri su fondo nero (quasi ad evocare un suprematismo totalitario opposto ed equivalente al quadrato bianco su bianco di Kasimir Malevič), questo straordinario interprete ha raccontato in maniera appassionante e coinvolgente la “banalità del bene”; un bene in realtà niente affatto banale di cui è stato capace Giorgio Perlasca nella Budapest del ’44, riuscendo a salvare 5.200 persone (non solo Ebrei) dalle camere a gas di Auschwitz.
Dopo l’occupazione tedesca dell’Ungheria, il 19 marzo 1944, gli Ebrei ungheresi verranno condotti alla stazione dagli stessi Ungheresi, dalle “Croci frecciate”. I nazisti erano consapevoli di aver già perso la guerra contro gli Alleati, ma quella contro gli Ebrei continuava: 438 mila Ungheresi saranno ancora deportati ad Auschwitz. A differenza degli altri Ebrei, però, i deportati ebrei-ungheresi conoscono già il loro destino. La loro deportazione avverrà sotto gli occhi del mondo intero, che era già a conoscenza della Shoah.
Alla fine del suo intervento, il Presidente Mattarella ha poi ringraziato Gabriele Nissim, Direttore della Foresta dei Giusti a Gerusalemme e uno dei fondatori della Gariwo, l’Associazione no profit e acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide, del Giardino dei Giusti di tutto il mondo. Giardino di cui, assieme a tanti Italiani, fanno parte due campioni di umiltà come Giorgio Perlasca e come Gino Bartali (cfr. I Giusti d’Italia. I non Ebrei che salvarono gli Ebrei 1943-1945, a cura di Israel Gutman e Bracha Rivlin, Mondadori, Milano 2006).
Ma chi sono i Giusti? Secondo il principio enunciato dallo Yad Vashem, Giusto (Tzadik) è «un uomo che per aiutare un perseguitato si assume un rischio, persino quello della propria vita». E ciò in base a quanto è scritto sul Talmud: «chi salva una vita salva il mondo intero» (riporto da uno dei contributi introduttivi, quello di Gabriele Nissim, inserito in Salvatori e salvati, a cura di Maria Teresa Milano, Edizioni Le Château, collana Ebraica, 2013). Per essere Giusti (Tzadikim) e per disubbidire a una legge dello Stato che si ritiene moralmente inaccettabile e ingiusta – come può essere ad esempio una legge razziale – non c’è bisogno, come pur diceva Kant, di diventare dei Gelehrten, dei saggi. Secondo Gabriele Nissim, per farlo è sufficiente essere Tzadikim, cioè uomini semplici e giusti che sanno attivarsi personalmente e responsabilmente, dando un esempio morale pratico, anche contro voglia, anche se questo impegno crea problemi personali, pur di far sì che una tale legge venga stralciata o emendata.
Che cosa contraddistingue lo Tzadik, il Giusto? Riportiamo ancora le parole di Gabriele Nissim: è «la capacità di pensare da soli». Specialmente in questo periodo, dice, nell’attuale «crisi morale che vive l’Europa». Noi crediamo, infatti, che una delle tante cause della crisi morale del nostro tempo risieda nell’impossibilità o almeno nella difficoltà di riuscire a pensare in proprio. E ciò è dovuto per lo più a politiche della scuola tese a impedire che i giovani pensino da soli, che facciano cioè l’esperienza della solitudine che ogni pensare autentico comporta. Per far ciò, la scuola dovrebbe avere una duplice funzione educativa: dovrebbe stimolare da un lato l’educazione al pensiero, ossia al pensare, e dall’altra sollecitare l’educazione del pensiero, ossia del formarsi pensando. La prima è un’attività ricettivo-cumulativa, la seconda è un’attività attivo-formativa. La prima è etero-formativa, la seconda auto-formativa.

A ridosso delle ultime elezioni politiche, oggi forse noi possiamo comprendere meglio tutto ciò. Oggi, ad esempio, noi Italiani possiamo renderci conto del fatto che esistono dei meccanismi storico-antropologici, degli automatismi fisiologici per non dire ontologici, delle identità atemporali che il tempo e le circostanze declina in modi differenti con ripetizioni di forme politiche, di atteggiamenti sociali, di visioni culturali. Esiste insomma una sorta di eterno ritorno dell’uguale. Basta solo andare indietro di un secolo per rendersene conto. Basta pensarci su un attimo, rifletterci un momento. Partiamo dalla crisi del 1929. Ha costretto tutto il mondo, ogni singolo Paese, a trovare soluzioni appropriate per affrontarla e superarla. Ma ogni crisi, ogni situazione dolorosa, rischiosa e quindi angosciosa, cerca istintivamente di attenuare i morsi della paura creando un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della propria ignoranza, della propria impotenza, della propria incapacità di capire e di uscire da questa situazione. Lo Stato tedesco e tutti gli altri Stati che condivisero la sua “soluzione”, la Endlösung der Judenfrage (la soluzione della questione ebraica, la Shoah), fecero dell’Ebreo il capro espiatorio. Con delle leggi ben precise (le leggi di Norimberga) i nazisti dissero che si poteva uscire da questa crisi economica liberandosi di tutto il popolo ebraico, poiché esso, oltre ad aver sottratto tutte le ricchezze al Volk, al popolo tedesco – toglieva cioè, come si può dire oggi, il lavoro e il pane ai Tedeschi – aveva per di più una Weltanschauung del tutto opposta a quella germanica: aveva cioè una visione internazionalista e multiculturalista (come l’avevano i comunisti, i socialisti e gli antinazisti in generale), mentre loro difendevano una prospettiva rigidamente nazionalista, fissata sull’ideale del Blut und Boden, del sangue e della terra.
Erstens die Deutschen, dicevano allora i nazisti e tutti i Paesi che affermarono quelle leggi antiebraiche e anticomuniste, “prima i Tedeschi”. Mutatis mutandis, pur nella differenza dei testi e dei contesti, dei protagonisti e degli antagonisti, dei governanti e dei capri espiatori, ripetendo quasi inconsciamente questo meccanismo discriminatorio, rileggendo ed eseguendo passivamente la musica scritta in questa specie di spartito già dato dalla storia, oggi si dice American first. Oppure: Prima gli Italiani. Anche oggi, dunque, come vediamo, c’è un modello discriminatorio principale a cui si ispirano tutti gli altri Paesi. Anche l’Italia. Almeno, una certa Italia. Quella che ha avuto un evidente riconoscimento nelle recenti elezioni.
Anche l’Italia fascista nel 1938 si rifarà alle leggi razziali tedesche del 1935. In Germania fino al 1939, gli Ebrei tedeschi e austriaci potevano fuggire, potevano lasciare le loro città e riparare all’estero (negli Stati Uniti, in Palestina, nel Regno Unito, in Francia). Poi furono costretti a stare nei ghetti, in attesa della loro deportazione nei campi di sterminio. Pure in Italia, gli Ebrei poterono spostarsi con una certa libertà. Anche dalle zone di occupazione italiana (Francia, Grecia, Croazia, Tunisia). Almeno fino al settembre del ’43, quando le truppe tedesche, vistosi tradite dal re d’Italia, invasero la nostra penisola e in collaborazione con Mussolini e con i fascisti di Salò cominciarono a deportarli, assieme agli oppositori e agli antifascisti, nei Lager tedeschi, austriaci e “polacchi”. Dobbiamo però fare attenzione a dire “campi polacchi”, perché, com’è noto, con una legge voluta dal governo polacco guidato da Mateusz Morawiecki e infine promulgata con la firma del presidente Andrzei Duda, la Polonia ha appena varato un provvedimento con il quale si intende punire fino a tre anni di reclusione coloro che (polacchi o stranieri) definiscono i Lager nazisti “campi polacchi” e che parlano di corresponsabilità dello Stato polacco nella Shoah.
Ad ogni modo, in «momenti di smarrimento della coscienza collettiva» (per usare un’espressione dell’ex Presidente Carlo Azeglio Ciampi), il pólemos storico rende evidente la differenza tra schiavi e liberi, tra collaborazionisti e salvatori, tra giusti e ingiusti, tra Tzadikim e L’o-Tzadikim, tra Gerechten e Ungerechten, tra uomini che allora denunciavano gli Ebrei alla polizia fascista per avere una ricompensa, e persone semplici e comuni che, invece, rischiando in proprio (come, appunto, Giorgio Perlasca), pensando in proprio, aprivano loro le porte salvandoli, offrendo ospitalità, cibo, amicizia, senza chiedere nulla in cambio. Ma oggi, diremmo citando il titolo di un saggio del sociologo Amedeo Cottino, C’è chi dice di no? Ossia, oggi c’è chi sa ascoltare la propria coscienza e pensare in proprio? Che cosa avremmo fatto noi al posto di Perlasca?

Franco Di Giorgi