Maturità. La ciliegina senza torta

Ancora da Pinerolo: il nuovo esame orale funziona. Può funzionare

Cominciamo con le tre buste.
Che in effetti fanno un po’ ridere noi agée venuti su a rischiatutti e sabine e signore longari. Eppure hanno un loro perché: quello del membro interno che butta lì allo studente cresciuto con lui di riguardarsi un certo argomento, è un peccato veniale e comprensibile.
Perciò busta uno, due o tre (trrrè, a dirla bene).
E la curiosità dà un po’ di pepe anche ai prof, colli allungati a spiare il contenuto della busta (sarà quello che ho proposto io? Il più bello o quello un po’ loffio ché all’ultimo abbiamo dovuto coprire la collega fancazzista?)
In fondo riempire le buste, qualche giorno prima di aprire le danze, era stata operazione insolitamente creativa per una commissione di professori messa insieme dal caso. Con un occhio al programma svolto e la consulenza dei colleghi “interni”, ciascuno (o quasi) aveva dato fondo alla propria fantasia, giusto per ritrovarsi durante ogni “estrazione” a rimpiangere di non aver pensato a quello e a quell’altro argomento, a un quadro di Dario Fo, a un’opera di Warhol, a una fotografia di Freud, a un grafico sul voto alle donne, a una pagina di giornale sullo Statuto dei Lavoratori, sul referendum del ‘74, sul funerale di Berlinguer, sull’omicidio di Aldo Moro, su Nilde Iotti a presiedere la Camera.
Da quel foglio lo studente, la studente parte, e va.
Va dove vuole, almeno in ipotesi: non è che proprio li abbiamo tirati su così, questi ragazzi che talvolta si appropriano del colloquio per portarlo esattamente dove vogliono, altre volte  vorrebbero essere in qualunque altrove e glie lo leggi negli occhi inquieti che bramano la domandina, il quizzetto alla Mike che tanto piaceva ai prof in questi anni.
Eppure – sebbene più complesso e faticoso – la conclusione da dare al proprio cammino lungo, alla propria personale maturità, non può che essere questa: andare ad appropriarsi
dello spunto (altro non è) e volare, portare i professori sulla strada scelta.
Un esempio?
Questa la fotografia di un gruppo di emigranti italiani 
Può condurre a svariati percorsi interdisciplinari (per esempio: grande ondata migratoria postunitaria; conseguenze dell’applicazione tout court al meridione – in special modo la coscrizione obbligatoria e la tassa sul macinato – delle leggi piemontesi; maledizione dei Malavoglia di Verga, che perdono tutto a partire proprio dalla partenza del giovane ‘Ntoni per il servizio militare; funzione delle rimesse nell’economia del Paese d’origine; legge del 1901 sulla trasparenza delle tariffe; spostamenti, globalizzazione e uniformità dei consumi…) in lingua italiana o straniera o nell’una e nell’altra.
Arrivare “studiati” è il primo requisito, essere scaltri(ti) il secondo: alcuni – sempre più spesso, dopo i primi due giorni – non cominciano a razzo ma si prendono il tempo necessario, si scrivono una mappa volante su un foglio, guardano negli occhi gli interlocutori, costruiscono l’interrogazione mattone dopo mattone, non forzano il percorso con collegamenti improbabili (“avendo parlato della Resistenza al nazifascismo, passerei alla resistenza elettrica”) ma chiedono un aggancio all’insegnante in questione, si esprimono in buon italiano e parlano fluentemente un’altra lingua.
Quando lo fanno, sentirli è un piacere vero.
E succede grazie ad alcuni insegnanti ammirevoli, a certe scuole che funzionano a prescindere dal sistema e a molti studenti che ce la fanno perché ce la fanno.
Però la scuola è per tutti, anche per chi ha la partenza lentissima ma poi andrebbe, anche per la ragazza timida che parla a stento, per chi con sette-otto adulti schierati a testuggine si sente seccare la gola, per il ragazzetto che proprio con le mappe non ci piglia, per il finto disinvolto che poi con il francese va in blocco, per quelli cui di collegamenti manco uno piccolino ne viene…
E’ per loro che la scuola si deve attrezzare, a prescindere dai bravi professori di buona volontà.
Abbiamo la ciliegina, sotto manca la torta.

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