Phubbing e la regola del tre

Questa piccola rubrica, curata da Aluisi Tosolini, in forma di “dizionario”, vuole fornire gli strumenti minimi per comprendere meglio temi che sono oggetto di dibattito pressoché quotidiano nei mezzi di informazione, che però, molto spesso, danno per scontato che chi li legge conosca con precisione dati, fatti e significati dei termini

Phubbing è un neologismo che nasce dal mix tra «phone» e «snubbing» (snobbare): identifica le persone che in occasioni conviviali o familiari o di lavoro seguono gli amici via smartphone piuttosto che relazionarsi con le persone presenti.
Una ricerca dell’università di Kent ha indicato le radici del «phubbing» in una dipendenza da Internet, oltre che dalla paura di trovarsi senza riferimenti: ovvero che il rapporto via smartphone è più gratificante o meno oppressivo di quello concreto.
Ognuno di noi conosce benissimo situazioni quotidiane (di lavoro o familiari) dove il phubbing è la norma. L’anno scorso tuttavia una studiosa americana, prima con un articolo sul New York Times poi con il volume Reclaiming conversation, ha compiuto un ulteriore ed interessante passo avanti nella descrizione dei cambiamenti prodotti dagli smartphone nelle relazioni tra persone. Prendiamo una cena fra amici durante la quale ci assale il bisogno impellente di sbirciare lo smartphone per controllare se ci sono notifiche, messaggi o per visualizzare notizie non certo indispensabili al momento. Come regolamentare questa necessità e allo stesso tempo rimanere collegati al gruppo in cui ci si trova? Sherry Turkle lo spiega definendo “La regola del tre”: quando si è in compagnia puoi distrarti sul tuo cellulare solo se almeno tre delle persone con cui sei sono impegnate in una conversazione.
Se a ciò si aggiunge il fatto che, come dimostrano molti studi sperimentali, quando due persone stanno parlando, la sola presenza di un telefono su un tavolo influisce sulla comunicazione e sul grado di connessione fra le due persone, la tesi della Turkle risulta chiara: i cellulari non sono semplici accessori, ma dispositivi potenti che hanno il potere di cambiarci e di cambiare le cose che facciamo. In particolare, conclude Sherry Turkle, minando il ruolo della conversazione, dell’ascolto dell’altro, dell’empatia.

Aluisi Tosolini