Quarant’anni di 194

Quarant’anni, nel tempo di una vita, sono la soglia che invita a un primo bilancio di successi e fallimenti. Così è anche per la legge n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”), che dal 1978 consente e regola l’interruzione di gravidanza in Italia, e che ha portato in quarant’anni a una riduzione di oltre il 50% degli aborti nel nostro paese.

Il quarantennale, che ricorreva il 22 maggio, si è svolto però non senza turbolenze politiche. L’anniversario è stato annunciato e accompagnato da pesanti attacchi da parte del fronte “pro life”, di quei gruppi organizzati e finanziati anche a livello internazionale, che dagli anni Settanta non hanno mai smesso di additare la norma come responsabile di una “strage di Stato”. Dimenticando che la strage c’era prima, quando l’aborto era diffuso e clandestino e le donne per interrompere una gravidanza indesiderata rischiavano la vita.
Pochi mesi fa sono gli comparsi striscioni contro la legge affissi alla Casa delle donne di Roma, poi i maxi-manifesti di ProVita onlus che ritraevano un feto con le scritte “tu eri così a 11 settimane” e “ora sei qui perché la tua mamma non ti ha abortito”: uno degli attacchi pubblici più violenti degli anni più recenti alle donne che interrompono la gravidanza. Gli ultimi cartelloni affissi per le strade di Roma e di altre città italiane hanno la firma di CitizenGO, una fondazione spagnola attivissima anche in Italia contro l’educazione sessuale nelle scuole, e che utilizza con astuzia il lessico femminista rovesciandone il significato: l’aborto è additato come “prima causa di femminicidio nel mondo”, con un riferimento del tutto strumentale al problema degli aborti selettivi di feti di sesso femminile diffusi in alcuni paesi del mondo.
In vista del quarantennale, anche il Senato della Repubblica in aprile ha dato ospitalità ai militanti antiabortisti, in un’iniziativa di ProVita sulla salute delle donne a cui hanno partecipato alcuni senatori della Lega e di Fratelli d’Italia. Tema: “le gravi conseguenze dell’aborto sul piano psichico e sanitario”. La sigla che milita contro l’autodeterminazione delle donne in materia riproduttiva intende presentarsi al tempo stesso come paladina del benessere femminile, quindi accreditare il proprio operato non solo attraverso la retorica della protezione del “bambino” ma anche della protezione della “madre”. E al suo fianco trova una forza politica, la Lega, che da pochi giorni ha assunto la guida del paese, nominando tra l’altro al Ministero della famiglia un proprio esponente, Lorenzo Fontana, convintamente ostile all’aborto, oltre che nemico delle nuove genitorialità e fautore di un ritorno ai ruoli di genere tradizionali.
Non sarà comunque sua la responsabilità di garantire l’applicazione della legge 194, che è invece in capo al Ministero della Salute. Perché il principio di diritto che consente alla donna l’interruzione di gravidanza è la sua salute fisica o psichica. Secondo l’articolo 4 la donna deve accusare “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Dunque, come si vede, non c’è un vero riconoscimento della competenza e responsabilità delle donne sulla propria gravidanza, dell’autodeterminazione così come pensata e difesa dal movimento femminista. La legge è del resto il frutto di una mediazione e un bilanciamento tra diversi orientamenti politici e culturali, e dichiara fin dall’art. 1 di voler tutelare al contempo anche la vita del nascituro.
Tuttavia, non si può dimenticare che depenalizzando l’aborto, facendolo emergere dalla clandestinità e lasciando alla donna, sia pur all’interno di rigide procedure, la decisione finale, la 194 ha rappresentato un importante ridimensionamento del controllo statale. Secondo Stefano Rodotà, consegnare alla donna la scelta, ben oltre la lettera della legge 194, significava “riconoscere la particolarità e l’irripetibilità della situazione che lega la donna al concepito, la specialissima natura del potere di procreare”.
Non solo, ma il drastico calo dei tassi di abortività, che si desume dai dati che pubblica ogni anno il Ministero della Salute, rende la legge del 1978, già uscita indenne da due referendum nel 1981, nei fatti ancora oggi inattaccabile. Questo lo sanno, naturalmente, anche coloro che militano contro l’aborto, che infatti oggi mirano, più che all’abrogazione della 194, a tenere vivo il dibattito sui valori fondamentali, a ostacolare il ricorso all’interruzione di gravidanza attraverso l’obiezione di coscienza, a impedire l’introduzione dell’aborto farmacologico, e a estendere la possibilità di obiezione alla cosiddetta contraccezione di emergenza (la pillola del giorno dopo o dei cinque giorni dopo).
Quello dell’obiezione è ormai un tema palesemente politico, perché le percentuali di ginecologi, anestesisti, ma anche infermieri, ostetriche e altre figure sanitarie medici che rifiutano di praticare le interruzioni di gravidanza raggiunge il 70% su base nazionale, e addirittura il 90% in alcune Regioni. Nessun altro paese europeo raggiunge queste proporzioni.
Questo è oggi il vero grimaldello con cui si cerca di disinnescare il valore ancora rivoluzionario di una legge che, oltre a salvare centinaia di donne dai rischi dell’aborto clandestino, assegna loro il diritto di pronunciare la prima e l’ultima parola sulla gravidanza. È dunque questo un fronte di allerta, e di resistenza necessaria, per tutte e tutti coloro che hanno a cuore la salute e la libertà delle donne.
Un vento contrario all’autodeterminazione femminile soffia, sempre più forte, negli Stati Uniti e in Europa. Ma le donne, in tutto il mondo, si mobilitano. E vincono, come hanno fatto da poco in Irlanda, con il referendum del 25 maggio che ha abolito l’ottavo emendamento della Costituzione e aperto la strada alla legalizzazione dell’aborto.
Il Sì delle irlandesi deve essere anche per noi, nel nostro paese, la consapevolezza che ogni nascita ha bisogno di un sì, quello della donna attraverso il cui corpo una nuova vita può venire al mondo.

Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti