Ripartenza lavoro: la difesa di un reddito purchessia può far prevalere l’interesse economico sul diritto alla salute

C’è il rischio, tutt’altro che virtuale, che i costi sociali della tremenda recessione in cui stiamo precipitando si scarichino tutti sui lavoratori e più in generale sui più deboli.

Quando un mese fa il Governo ha fermato con un decreto le cosiddette “attività non essenziali”, è successo di tutto. Ma una cosa è certa: non è vero che tutto, o quasi tutto, si sia fermato. Anzi, per ragioni diverse, un numero crescente di aziende, magari a mezzo servizio, si è rimesso in moto, anche in Canavese, aggiungendosi a quelle realtà che non si sono mai fermate, perché considerate essenziali o che hanno potuto ricorrere allo smart working: la filiera alimentare, quella biomedicale, i call center, buona parte della logistica. Amazon per esempio ha incrementato volumi di lavoro e personale, e al magazzino di Torrazza – vicino a Chivasso – lavorano almeno 1200 persone.
L’aumento delle aziende aperte è avvenuto grazie al meccanismo delle autocertificazioni alle Prefetture, con cui ogni singola impresa comunica le ragioni per cui ritiene di avere i requisiti per lavorare, ad esempio la produzione di componenti destinati alle filiere “essenziali”: la comunicazione produce un effetto di silenzio-assenso, fatta salva la possibilità che a fronte di un controllo della Guardia di Finanza le dichiarazioni risultino non vere e il Prefetto disponga la sospensione dell’attività.
A Torino, per esempio, sono state ad oggi presentate 2.276 autocertificazioni, effettuati 900 controlli e disposte poco più di 30 sospensioni.
Quindi tutto bene?
Solo all’apparenza perché in realtà quasi tutti i controlli sono stati solo documentali, e appena un centinaio hanno comportato un’effettiva ispezione in azienda!

Poi ci sono i controlli, di cui non sappiamo né il numero né l’esito, relativi al rispetto delle misure di sicurezza, svolti principalmente dai Nas, dagli Spresal, dall’Ispettorato del lavoro e dalle forze dell’ordine. Controlli sulla sicurezza svolti quasi sempre su segnalazione di sindacati e lavoratori. Un quadro confuso, che soprattutto in Piemonte è passato in secondo piano rispetto al dramma delle RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali ndr], affrontato con modalità discutibili e in una logica molto “prefettizia”: io rappresento la Cgil nell’apposita “cabina di regia” istituita dal Prefetto e in quasi un mese siamo stati riuniti 2 volte, senza neanche riuscire, finora, ad avere dei riscontri precisi, almeno alle nostre segnalazioni!

Sono partito da questo quadro poco edificante perché è utile per capire il contesto concreto in cui si discute di un’eventuale ripartenza.
In verità dal giorno dopo in cui una buona parte delle attività è stata sospesa, è subito iniziato un pressing costante soprattutto da Confindustria per la riapertura: un mantra insopportabile, dove l’interesse economico finisce per prevalere sul diritto alla salute, e dove spesso si è perso il motivo originario del cosiddetto lockdown, e cioè contenere il diffondersi del contagio, partendo dal presupposto che i luoghi di lavoro sono inevitabili occasioni di assembramento e incidono sugli spostamenti delle persone – spesso su mezzi pubblici affollati – ben più dei runners solitari inseguiti dai droni…

Se questo era il presupposto, per riaprire non solo occorre che i dati dell’epidemia segnino un evidente miglioramento – e il Piemonte si sta disputando la maglia nera con la Lombardia -, ma serve che le aziende siano davvero in grado di garantire misure preventive che riducano al minimo i rischi di contagio.
Ma oggi queste condizioni sussistono in modo diffuso? Davvero le aziende sono in grado di garantire il distanziamento sociale e i dispositivi di protezione individuali, come le mascherine, per tutti?
Se queste elementari condizioni non sono garantite, il resto sono solo chiacchiere!

In questi giorni in tanti si sono misurati con l’elaborazione di protocolli e procedure, come il Politecnico di Torino: in molti casi si tratta anche di rivoluzionare l’organizzazione e gli orari di lavoro, in un contesto dove più in generale occorre riprogettare aspetti decisivi della nostra vita, dai trasporti al commercio, dalla sanità all’istruzione.
Qualcuno parla di un’occasione per costruire un diverso modello di sviluppo, c’è però il rischio tutt’altro che virtuale che i costi sociali della tremenda recessione in cui stiamo precipitando si scarichino tutti sui lavoratori e più in generale sui più deboli.

Non voglio divagare ma la difesa di un reddito purchessia può spazzare via qualsiasi conflitto tra interesse economico e diritto alla salute.
Alla fine alla ripartenza si arriverà, è inevitabile: il punto non è quando, ma come, con la salute al primo posto, e salvaguardando i diritti individuali e collettivi, evitando che l’emergenza se li porti via.
Sorveglianza sanitaria e sistemi di tracciamento sono temi delicati, tra difesa della privacy e controllo sociale. E molto dipende da quello che si deciderà nei prossimi 15-20 giorni, tra un Governo debole, una Confindustria scatenata, i cosiddetti esperti per fortuna prudenti ma anche divisi, e un sindacato alle prese con una montagna di cassa integrazione e tanti precari ormai in mezzo alla strada. In buona compagnia con artigiani, commercianti e partite iva.

Federico Bellono