Sulla mostra Exodos

Mostra sull’emigrazione in chiesa S. Marta

L’immagine è l’epicentro della comunicazione da quando esistono gli ideogrammi; il suo potere di catturare l’attenzione è diretto, immediato, sintetico. Giorni fa ho visto in tv il filmato raccapricciante di una donna in ginocchio, infagottata in un burqa, e frustata da un funzionario esecutore di punizioni corporali. Dico funzionario ma dovrei dire aguzzino in uno di quei paesi dove la cultura dominante è quella che, solo eufemisticamente, si definisce integralista.
La donna era stata condannata alla pena di 30 frustate, da comminarsi in pubblico per attribuire il massimo valore esemplare alla rea, confessa di aver ascoltato musica occidentale.
Nel silenzio della scena risuonavano sordi i colpi di frusta sulla schiena della donna, la luce del giorno a rischiarare appena le pieghe della sua veste carceraria, del suo sarcofago di stoffa. Una donna come un gigantesco fazzoletto azzurro ripiegato su se stesso, apparentemente impassibile sotto i colpi, ma pronto ad afflosciarsi nella polvere. Ebbene, nessuna parola avrebbe potuto rendere così drammaticamente intollerabile questa scena così come le immagini che ce la mostravano.
Analogamente questa mostra in sala S. Marta, ad ingresso libero e sapientemente organizzata da un insieme di enti tra cui l’Osservatorio migranti, rendeva visibili tutte quelle scene che tendiamo a dimenticare nel disagio vero o presunto che l’immigrazione comporta. Le opere dei dodici fotografi che hanno esposto, sono un flash back su ciò da cui non si può prescindere. Lo sguardo nudo sulla realtà disgregante e disperata che traccia le rotte dell’emigrazione. L’attraversamento del mare, la vita che rischia di scomparire nell’onda ostile, la zattera stipata e la paura. Sono occhi di giovani e anziani, sguardi bianchi e smarriti, occhi persi nel nulla. Che cosa c’è alla fine del mare, dove conduce il filo della speranza, quale il prezzo da pagare al rischio della vita?

Un approdo, una strada, il bordo di un marciapiede diventano l’appiglio a cui appendere, per qualche ora, la stanchezza, un rifugio di coperte da cui sbucano volti indifesi. Si vedono migranti ammassati nei campi di accoglienza, altri in cammino, altri contenuti brutalmente dalle forze dell’ordine, uomini sardina ammucchiati sui barconi, uomini che finalmente toccano terra, ribollio di acque sulla spiaggia, come spruzzi bianchi di una nuova energia. Sono uomini e donne che si lasciano tutto alle spalle, uomini in fuga da fame e miseria. Uomini scartati dall’economia e dalla politica, uomini esclusi che la legge durissima della sopravvivenza ha reso comunque più forti di noi. E forse è questo il vero motivo per cui spesso ne abbiamo timore. Non la loro povertà ma la loro determinazione, il loro coraggio. Gente che ha rischiato tutto e che, spesso, ha perso anche tutto nel mare. C’è la testa di un ragazzino che sbuca dalla feritoia di una tenda, ci sono emigranti che seguono una mappa di carta stropicciata lungo strade fredde e nevose. C’è la solidarietà che unisce i fratelli nello stesso tipo di viaggio, c’è una donna che prega in una stanza, forse già ospite di un centro di accoglienza. In ginocchio, le mani giunte, il velo che le cade ai lati del viso, questa donna infila l’Africa in una camera bianca e pulita. La sua è una preghiera di fede e forse di ringraziamento per essere sfuggita all’inferno. E’ un’immagine rivelatrice di grande impatto e bellezza. Ecco, questa mostra ci ricorda le origini dell’emigrazione, è un osservatorio sul mondo che segna i cambiamenti in corso. Queste immagini sono quelle che dobbiamo ricordare quando affiorano le tentazioni xenofobe, la paura del diverso, la scomodità, a volte anche oggettivamente pesante, delle convivenze impreviste. Sono immagini da tenere salde nella memoria prima di giudicare frettolosamente. Certo la via dell’integrazione è ardua, i progressi sono scarsi, le frustrazioni tante. Ma tutti siamo chiamati a fare la nostra parte. Non si tratta tanto di ricordare che anche noi, un tempo, siamo stati emigranti ma di capire che anche noi siamo carenti e spesso inadeguati.

Per fare un esempio, evocando per un attimo Notre Dame finita nel rogo, molti parigini o turisti, nella nazione della grandeur, non hanno perso l’occasione di farsi un selfie con la cattedrale in fiamme alle loro spalle. Se gli emigranti della miseria e della follia della guerra fanno paura all’occidente allora che dire, guardandoci allo specchio, di questi cultori amorfi dell’autoscatto desensibilizzato? Forse che per loro non c’è bisogno di integrazione perché sono di pelle bianca?

Pierangelo Scala