Torino prima del dopo

Riflessioni da un balcone ai tempi del Covid-19

Si possono trovare molte testimonianze di questa quarantena, e per tutti i gusti. Personalmente trovo nobile, utile e per certi aspetti terapeutico tentare di tessere un racconto collettivo di questi strani giorni; trovo invece inutile e spesso dannoso l’approccio stucchevolmente intimista, emotivo e romantizzante che ha sovente imperato in questa forma espressiva, rappresentativo di quella che Wolf Bukowski ha chiamato “neoplasia dell’ego”.
L’isolamento forzato incoraggia certamente l’espressione autobiografica di punti di vista soggettivi; tuttavia l’intento dovrebbe essere quello problematizzante, che prende spunto dalle modalità personali di esperienza ed elaborazione delle attuali circostanze per metterne in luce le criticità, le contraddizioni e i risvolti purtroppo non sempre incoraggianti. Lasciarsi andare a spensierati (o disperati?) tentativi di normalizzare la propria condizione, dipingendola coi colori pastello della tanto attesa occasione per “rallentare”, della speranzosa illusione che tutto torni come prima, dell’esercizio di resilienza o dell’orgoglio nazionalistico non fa che distogliere, a mio parere, lo sguardo dal baratro a cui questa crisi sta conducendo.
Come spettatrice torinese dei tempi del Covid-19, sono situata su un balcone nel quartiere Nizza-Millefonti. Su queste mattonelle scaldate dal sole ho il mio quartier generale e svolgo la maggior parte delle mie attività osservative, certamente per mezzo dei miei (ahimè miopi) occhi, ma soprattutto attraverso l’ausilio della connessione internet e degli schermi digitali, ormai unici (e fragili) ponti col mondo oltre questa strada. Non succede granché all’interno del mio perimetro visivo. Certo, assisto molto più di prima ai frammenti della vita quotidiana che si cela dietro ai vetri dei palazzi di fronte: vedo molti bambini annoiati davanti alle tivù, molte madri stanche e molti anziani che rimbalzano lentamente, ma con costanza dal balcone al mistero delle loro abitazioni, avanti e indietro, senza scopo apparente. Per strada c’è sempre gente: abito di fronte a un’enoteca, i proprietari sono simpatici e la clientela, evidentemente, ancora edonista. Spesso verso sera sento che i toni si alzano, qualche volta è successo che mi angosciassi udendo urla, litigi e strepiti che esplodevano attraverso le tende indifferenti di appartamenti che non conosco. In questi mesi ho percepito l’ammontare del nervosismo, dell’insofferenza e della frustrazione nelle voci dei miei vicini. Quando mi capita di intercettare un volto conosciuto di ritorno da una spesa o, colpevolmente, da una proibitissima passeggiata, le parole che si scambiano sono sempre le stesse, in un’ormai codificata cantilena: “chissà il lavoro, speriamo, chissà il lavoro, speriamo, chissà il lavoro…”. Tutto è vivo, qui, ma ripetitivo. Mi trovo spesso a pensare: la calma prima della tempesta.

La tempesta, in realtà, è già arrivata, in altri luoghi e in altre vite. La scorsa domenica, in corso Giulio Cesare, quartiere Aurora, sono esplose le prime scintille dello scontento. A partire da un evento scatenante le cui dinamiche sono ancora incerte, e su cui sembra si sia perso interesse a gettare luce, è stato squarciato per qualche ora il velo opaco dell’epidemia. Secondo le principali testate giornalistiche, si sarebbe trattato di uno scippo, poi rinominato “furto”, fino ad arrivare a parlare di “rapina”, ad opera di due uomini di origine marocchina. Le testimonianze dei presenti, tuttavia, non hanno la stessa sicurezza nel ricostruire l’accaduto, e si parla di tensioni originate da controlli e identificazioni particolarmente aggressive da parte delle forze dell’ordine. Ormai, non sembra più importare; comunque sia, l’episodio avrebbe scatenato le proteste di alcuni dei presenti, tra cui quattro ragazzi che occupavano uno stabile vicino all’epicentro dei disordini. Gli articoli di cronaca avrebbero successivamente parlato di “un’ottantina”di anarchici, mettendo nello stesso calderone passanti casuali, madri di ritorno dalla spesa, anziani curiosi e così via: tutti generalmente etichettati come “antagonisti” e rei di aver fomentato una rivolta popolare per difendere, sempre nelle parole della cronaca, i due pericolosi criminali. Nei video diffusi online dai testimoni diretti di quei momenti, si coglie chiaramente la sproporzione tra le proteste dei presenti e le reazioni delle forze dell’ordine. I quattro ragazzi scesi in strada per assistere alla scena ed esprimere verbalmente il proprio dissenso vengono accerchiati e ripetutamente provocati dagli agenti in divisa, a cui sono accorsi in aiuto digos e addirittura l’esercito. I toni si fanno accesi, le forze dell’ordine “si ricordano”, tardivamente, di indossare le mascherine per poi intimidire i presenti chiedendo loro inquisitoriamente perché non le portino; le distanze di sicurezza passano in secondo piano, nelle mani degli agenti compaiono dei manganelli accarezzati con nervosismo. Nel giro di pochi minuti, inspiegabilmente si vedono gli agenti atterrare violentemente i ragazzi, immobilizzarli e trascinarli con forza nelle vetture, in mezzo allo sconcerto generale. Dopo ore senza notizie, si apprende che i due uomini ritenuti responsabili del furto e i quattro ragazzi fermati si trovano tutti nel carcere delle Vallette. Giorni dopo, questi ultimi verranno scarcerati: tre di loro con l’obbligo di firma, e una con il divieto di dimora a Torino.

Molti, come me, sono rimasti turbati da queste immagini. È ampiamente diffusa l’opinione che la reazione delle forze dell’ordine sia stata violenta ed eccessiva. La presenza della digos e dell’esercito in occasione di quello che, per la versione ufficiale, è stato un furto, pare comunque spropositata. Provo un senso di frustrazione: abito lontana, e non avrei comunque potuto assistere direttamente ai fatti, ma anche la loro elaborazione è monca, nessuno è con me a scambiare impressioni e a discutere l’accaduto. Inoltre, mi chiedo: quando, esattamente, abbiamo deciso collettivamente che alla responsabilità individuale subentrasse l’arbitrarietà del controllo? Penso: mai. Non lo abbiamo mai deciso, lo abbiamo più che altro lasciato accadere, spinti da sentimenti fondamentali e, per questo, semplici: la paura, l’incertezza, il bisogno di protezione. Penso: l’esigenza di sicurezza è acclamata a gran voce, tanto da sovrastare quella di giustizia, uguaglianza e autonomia. Quello riportato non è l’unico episodio di abusi in divisa: sempre qui a Torino, un rider è stato pesantemente multato mentre attendeva l’arrivo di ordini per le consegne; un ragazzo impegnato in attività solidali fuori da un supermercato, partecipando alla raccolta di beni di prima necessità per le sempre più numerose famiglie in difficoltà, è stato portato in caserma, perquisito corporalmente e multato. In tutta Italia si registrano episodi del genere, tanto da attirare addirittura l’attenzione dei grandi quotidiani, che però si affrettano ad assicurare come questi siano casi isolati, imputabili a un tutto sommato comprensibile “eccesso di zelo” delle forze dell’ordine, sotto pressione per la situazione emergenziale. Il problema, a mio avviso, è che a fronte di decreti fumosi, emanati in modo quasi febbrile e tagliati con l’accetta, ignorando l’eterogeneità della casistica possibile, si è ricorso massicciamente alle forze dell’ordine e in molti casi, come a Torino, all’esercito, per farli rispettare. Se retoricamente si è fatto appello al buon senso e alla responsabilità degli italiani, nella pratica la capacità di valutazione e decisione autonoma sono state ignorate e, come se non bastasse, perseguite e punite. L’effetto è degno di un saggio di Illich: si è superata la soglia entro cui le misure di contenimento (pur necessarie, sia ben chiaro) vengono applicate come efficaci strumenti per la tutela della salute di tutti; esse mostrano troppo spesso un volto di punizione (multe e repressioni) privazione ingiustificata della libertà (divieto di passeggiata seppur in situazioni di totale sicurezza e altri insensati divieti) e, paradossalmente, lesione della salute: si pensi a tutti quei bambini privati della possibilità di godere dell’aria aperta, degli anziani a cui farebbe assai bene muoversi ogni giorno, ai senzatetto che si trovano in condizioni ancora più precarie, a chi soffre di patologie psichiche, a chi sta affrontando un momento di disagio psicologico, alle donne vittime di violenza domestica, e la lista idealmente diventerebbe talmente lunga da includere la totalità di noi.

Non bisogna confondere questa critica con un atteggiamento negazionista nei confronti dell’attuale emergenza. Contestare le misure con cui viene gestita la crisi da Covid-19 non equivale a contestare la realtà del virus. Evidenziare come la gestione da parte dello Stato sia stata securitaria, paternalistica e, allo stesso tempo, piuttosto disordinata, non implica il negare in toto la necessità di un intervento statale nell’emergenza. Il punto è che mai come adesso si vedono i limiti di quella che ancora, per inerzia e in certi casi per malafede, si osa chiamare “normalità”, a cui tutti (e invece no) dovremmo voler tornare: dalle casse integrazione che non arrivano, le famiglie sull’orlo della povertà, le disfunzionalità e l’insufficienza degli apparati statali, alla più generale insostenibilità della megamacchina globale che, sotto le sospette etichette di “crescita” e “sviluppo”, produce oggi un surplus di sofferenza. A suon di devastazione, deforestazione, allevamenti intensivi, inquinamento, industrializzazione e messa a valore generalizzata, si è da tempo scollinato sul versante in cui ciò che viene venduto come irrinunciabile “progresso” non è altro che il tentativo di tamponare i danni sempre più corposi prodotti dal progresso stesso. Ed ecco che si parla già di una ripresa dei consumi, di buoni alle famiglie per andare in vacanza, di riapertura anticipata per la ripresa della produzione (ma non si accenna, si noti, alla necessità di dare un po’ di respiro alle persone): è proprio vero, si ha tutta l’intenzione di tornare alla “normalità”; ma senza considerare con la dovuta attenzione che vi è una crescente fetta della popolazione per cui questa “normalità” non è mai esistita o comunque è divenuta estremamente indesiderabile.
Lo dimostra ciò che è successo pochi giorni fa, sempre nel quartiere Aurora: un corteo spontaneo si è riversato tra le vie della città, protestando contro i fatti di domenica e contro le condizioni sempre più insostenibili in cui questa epidemia – o meglio, la gestione di questa epidemia da parte di terzi – sta riducendo molte persone. Dai video diffusi in rete si nota come ci sia stato un impegno attivo nel mantenere le distanze e nell’utilizzare (quasi tutti) dispositivi di protezione; impegno vanificato, però, e ancora una volta, dall’intervento delle forze dell’ordine che hanno diviso, accerchiato e ammucchiato le persone presenti al corteo. Sui media, ancora una volta, si liquida il tutto semplicisticamente come l’ennesima provocazione anarchica ; forse, per paura che si dia troppo peso alle contestazioni condivise da chiunque si trovi in difficoltà, a prescindere dall’ideologia a cui appartiene. Di nuovo mi viene in mente il rovesciamento a cui accennavo prima: dall’ideale efficienza di un sistema preposto al bene di tutti alla sua, paradossale, nocività per la salute e la libertà collettive. Quando l’espressione del dissenso, ma anche l’iniziativa solidale, l’autorganizzazione, la possibilità di autonomia nella salvaguardia della propria vita diventano impossibili a causa dell’intervento, più o meno diretto, dall’alto, allora questo intervento perde di efficacia e diviene dannoso.

Concludo: forse la vera dimostrazione di responsabilità da parte di tutti sarebbe, invece che obbedire a divieti senza alcun senso, quella di rendersi conto che l’epidemia non ha livellato proprio nulla, che non siamo tutti uguali di fronte al virus; che, su ogni fronte, vi sono problemi che non possono più rimanere inascoltati; e che, a fronte delle difficoltà che si delineano di fronte a noi, sarebbe forse auspicabile ripensare al margine d’azione che come individui ci appartiene: non soltanto per esprimere il dissenso, ma anche per riacquistare la capacità di prendersi cura di sé e del proprio ambiente naturale e sociale senza aver eccessivo bisogno dei servizi erogati da altri. Non dimentichiamo che è anche – e non si ignori questo, come i successivi “anche” – a causa delle crescenti esigenze dei consumatori che le multinazionali continuano ad aumentare produzione di merci (e di scarti) e profitti; che è anche a causa dei bisogni sempre più costosi (viaggi, vacanze, tecnologie) di una fetta sempre più considerevole della popolazione globale che non sembra esserci altra soluzione alla crisi ecologica se non un irrealistico blocco globale totale; non ignoriamo (e questo è più difficile, lo so) che è anche a causa delle crescenti esigenze di cure, sicurezza, istruzione che gli stati sperperano denaro pubblico con risultati sempre meno ottimali. Riacquistare la capacità di prendersi cura della propria salute, aiutarsi e proteggersi l’un l’altro e imparare autonomamente è, a mio parere, la vera prova di responsabilità: un tipo di responsabilità che sanerebbe una parte non indifferente delle inefficienze e delle disfunzionalità del sistema cui partecipiamo e che ci darebbe quel genere di speranza che porta davvero un cambiamento.

Lara Barbara
Foto a cura di Davide Zamboni