Un eporediese in Vietnam ai tempi del Covid-19

Le difficoltà reali e la sensazione di “discriminato” in quanto straniero possibile “untore”

Con 270 casi positivi, di cui 230 guariti e nessun morto, la Repubblica Socialista Indipendente Libera e per questo felice, in arte Vietnam, sta bloccando con successo il Covid-19.
Il Paese, seppur confinando a nord con la Cina, è riuscito ad evitare le conseguenze devastanti della pandemia. Ha subito chiuso le frontiere con il suo vicino dal primo febbraio, non ha riaperto le scuole dopo le vacanze del Capodanno cinese (per il quale si calcola ci sia quasi un miliardo di spostamenti in tutto il mondo), ha isolato una serie di località dove si erano riscontrati i primi casi e, in ultimo, dal primo aprile ha bloccato tutte le attività non essenziali ed imposto tutta quella serie di limitazioni alla vita quotidiana che, più o meno, tutti i Paesi nel mondo stanno osservando.
Le misure di contenimento della pandemia si sono basate sull’identificare e monitorare persone e gruppi infetti o a rischio d’infezione.
Ad ogni positivo viene subito chiesto di rispondere ad un questionario nel quale deve elencare i nomi di tutte le persone che ha incontrato e contattato, persone che vengono successivamente testate e, se è il caso, isolate.
È un sistema di intervento profondo, severo, caratteristico di un regime totalitario, ma la maggior parte delle persone lo segue.
Hanno dato un’interpretazione personale all’idea confuciana della pratica della “virtù”, osservando il principio per cui “un paese basato sulla forza di un gruppo di persone vicine, disciplinate e ben guidate da un leader vince sempre su una folla di individui forti”.
Questo successo, viene spesso accostato, da politici, media e social, alla “Gloriosa offensiva di primavera del ’68”, che ha sorpreso gli americani e gli alleati della Repubblica del Vietnam nella guerra precedente.

Poi c’è la vita reale…

Parlando con amici e conoscenti si percepisce grande scetticismo, il pensiero comune è che il governo stia nascondendo le cifre reali di morti ed infetti. Un vanto da bar, nei confronti degli altri Paesi, soprattutto dell’odiata e storica rivale, la Cina.
Mercati e strade deserti, in un Paese (come del resto quasi tutti quelli denominati “del Terzo Mondo”) in cui una parte cospicua della popolazione basa il reddito familiare su ciò che sfanga alla giornata con piccole attività (come povere bancarelle di frutta e verdura, chioschi che servono noodle e riso o piccoli caffè), fanno diventare la situazione disperata.
Il governo è intervenuto, creando i cosiddetti Atm del riso: ad una certa ora e in un certo luogo, volontari governativi, distribuiscono viveri di prima necessità, come, appunto, riso, pane, olio, sale, zucchero, ecc…
Sono sorte anche iniziative private dello stesso genere.
Code chilometriche di persone, con mascherine, che aspettano diligentemente il proprio turno.
Ma ovviamente non basta, il malumore è diffuso ed è amplificato dalla costante paura.
Da un paio di giorni, fortunatamente, il governo ha allentato la stretta, si sta tutto, molto molto lentamente rimettendo in moto. Vedremo.
Io lo straniero, quindi possibile untore, noto grande differenza nei rapporti quotidiani, nonostante sia nella stessa città da fine novembre. Chi è abituato alla mia presenza, non ha cambiato modo di fare, anzi, forse, immedesimandosi nella mia condizione ha aumentato la sua generosità, ma per le nuove facce sono solo un “muso bianco” di cui diffidare, avere paura, da evitare ed incolpare.

Poi ci sono le mie di paure, quelle reali (rinnovo del visto, sospensione del volo di ritorno, padrone di casa che all’improvviso ti dà l’out, banche che si rifiutano di cambiarti i soldi,…) e quelle immaginarie, se preferite paranoie (quel tizio che mi vede e poi telefona starà avvertendo la polizia della mia presenza? La pattuglia che mi incrocia tornerà indietro per verificare i miei documenti? Non ho nulla d’irregolare, nulla da nascondere, ma, come dicono i piemontesi… a tsà mai!)
E poi: se mi viene un semplice raffreddore? O mi scappa uno starnuto per la strada? Se entrando in un qualsiasi esercizio, mi viene riscontrata qualche linea di febbre?
Sarebbe già dura da spiegare in italiano o in inglese, ma in vietnamita?
Insomma, se i cosiddetti “misunderstanding”, sono all’ordine del giorno in una situazione normale, figuriamoci ora.
Credevo di conoscere il significato della parola discriminazione, ma fin quando non la provi sulla tua pelle, non la capisci appieno.
Non voglio certo accostare la mia situazione a quella dei veri discriminati (non credo sia neppure il caso di evidenziarlo perché, usando un eufemismo, sono molto molto molto più fortunato), ma la sensazione è un po’ quella.
Insomma, banalizzo… io speriamo che me la cavo.

Igor Marchetti