8 marzo: una per tutte

E come ogni anno arriva l’8 marzo, data dedicata a festeggiare le donne, e ancora ci si chiede se abbia senso parlarne o celebrarlo. Poi dalle news giungono resoconti di sentenze che diminuiscono la pena ad un femminicida (eh sì, il termine è perfetto, basta lamentele) perché in preda ad una tempesta emotiva, delle donne della Lega di Crotone coi loro manifesti, di Trenitalia con il suo bonbon al limone, delle locandine di aperitivi per sole donne, serviti da uomini in mutande e quindi capisci che non solo vale la pena celebrare l’8 marzo, ma che è indispensabile farlo, almeno per raddrizzare un po’ il tiro. Ma come si fa? Si scrive. Si racconta la fatica e il dolore, ma anche le gioie e la bellezza di essere femmina in un mondo ostile. E se c’è un esempio di sopravvivenza alle ostilità dell’ambiente circostante, quello è sicuramente la vita di una donna, che tra le tante (davvero tante), ha portato addosso tutto il bene e tutto il male dell’appartenere al “gentil sesso”: Marie Curie. Siete pronti/e? Via!

Maria Skłodowska nasce a Varsavia nel 1867 da genitori insegnanti, riesce a guadagnarsi gli studi grazie ad un patto con la sorella Bronya (lei avrebbe lavorato per pagare gli studi della sorella a Parigi e la sorella avrebbe contraccambiato una volta terminato) e in soli 3 anni, vivendo di stenti in una soffitta del Quartiere Latino, si laurea in fisica alla Sorbona. Un patto fra sorelle è la prima grande luce nella vita esemplare di questa donna. Il suo piano è di tornare in Polonia e dedicarsi all’insegnamento, ma l’incontro, dapprima solo scientifico, con il chimico Pierre Curie le fa cambiare idea. I due si sposano nel 1895 e nel 1897, quando Marie ha ben 30 anni, un’età decisamente avanzata per l’epoca, nasce la prima figlia, Irène (premio Nobel pure lei). Il fatto di essere diventata madre però non comporta (come di consueto) l’abbandono della ricerca. Marie sceglie di studiare e approfondire le ricerche di Henri Becquerel sul fenomeno dei raggi emessi dall’uranio, utilizzando uno strumento messo a punto e perfezionato da Pierre: l’elettrometro. La sua attenta analisi la porterà a scoprire che l’emettere radiazioni è una proprietà atomica dell’elemento uranio: da lei battezzata radioattività. Et voilà, la scienza del ‘900 è servita su un piatto d’argento, magistralmente preparato dalla nostra Marie. Sarà infatti considerata la grande madre della scienza. Un tipo di maternità piuttosto difficile da conseguire, e non solo in quell’epoca. Ma la ricerca continua e nell’estate 1898, Marie e Pierre (lanciato a capofitto negli studi della moglie- capite bene che è lui ad essere preso dagli studi di lei e non viceversa) scrivono di aver identificato una sostanza 300 volte più attiva dell’uranio: “crediamo che la sostanza che abbiamo estratto dalla pechblenda contenga un metallo mai identificato finora… suggeriamo di chiamarlo polonio, dal nome del Paese di origine di uno di noi”. A dicembre dello stesso anno, informano l’Accademia delle Scienze di aver scoperto un’altra sostanza, con una radioattività 900 volte maggiore di quella dell’uranio: il radio.

Nella struttura fatiscente di un capannone abbandonato, adibito a laboratorio, tra i fumi radioattivi dei minerali, Marie si occupa della separazione chimica dei distillati, rimescolando per ore pentoloni bollenti con 20 kg di materiale per volta. Dopo quattro anni di lavoro massacrante ottiene una quantità di radio puro pari a pochi granelli di sabbia e nel giugno 1903, nella sua tesi di dottorato, ne presenta finalmente al mondo il peso atomico: 225, una misura quasi esatta (oggi sappiamo che è 226). Sempre nel 1903 arriva il primo Nobel, per la fisica (da dividere con Becquerel) e per i Curie inizia anche la fama internazionale. Ma la star è Marie. Nel 1906 Pierre muore investito da un carro sul Pont Neuf e Marie, vedova a 38 anni, diviene la prima donna a insegnare alla Sorbona, poiché “eredita” il posto del marito. La sua prima lezione inizia da dove era finita l’ultima di Pierre.

Nel 1911 arriva il secondo Nobel, questa volta per la chimica e l’invito alla prestigiosa Conferenza Solvay (unica donna tra fisici del calibro di Einstein e Planck). Ma la candidatura di Marie all’Accademia delle Scienze viene scartata, in un clima maschilista, razzista e pure antisemita (visto il suono del suo cognome). E a questo punto inizia la discesa: fa scandalo la sua relazione con il fisico e matematico Paul Langevin, ex studente di Pierre, sposato (ma separato). L’intero mondo accademico parigino ne se occupa, persino i vertici del Ministero dell’Istruzione. Marie,la “straniera rubamariti”, è costretta a barricarsi in casa con le figlie, e si vede più volte invitata ad abbandonare la Francia.

Pure il comitato del Nobel chiede ragione della sua vita privata, ma per tutta risposta Marie si reca a Stoccolma e pronuncia il suo discorso di accettazione, in cui rivendica i suoi meriti e il contributo di Pierre (cosa mai fatta a posizioni invertite). (https://www.nobelprize.org/prizes/chemistry/1911/marie-curie/lecture/) La vicenda la porta ad una crisi depressiva da cui impiega un anno a riprendersi, solo grazie all’aiuto e alla solidarietà di alcuni amici scienziati (tra i quali Einstein che le invia una lettera di stima e solidarietà).

Nel 1914 scoppia la guerra e Marie è in prima linea per la Francia, nonostante tutto. Durante il conflitto, prima da sola e poi con Irène, predispone 20 camion dotati di strumentazioni per i raggi X. Nascono così le prime unità mobili di soccorso radiografico che possano raggiungere le zone più difficili (una la guida di persona, con una fascia della Croce Rossa al braccio). E’ Marie a istruire il personale di soccorso su come leggere le radiografie. Durante la guerra se ne eseguono più di un milione.

Un’altra donna, la giornalista americana Marie “Missy” Maloney, ne riabilita il nome, organizzandole, dopo la guerra, un tour di presentazione trionfale negli Stati Uniti, in cui la scienziata viene presentata come colei che “cura il cancro”. I fondi ricavati finanziano l’acquisto di un grammo di radio per l’Istituto Curie, e nessuno parla più dell’affaire Langevin. Negli ultimi anni della sua vita Marie passa il testimone alla figlia Irène e al genero Frédéric Joliot (il quale adotta il doppio cognome per rispetto nei confronti dei suoi suoceri): vive abbastanza da vederli scoprire la radioattività artificiale, ma non a sufficienza per vedergli conferire il Nobel. Fino alla fine si ostina a dire che le serve solo un po’ di aria fresca: mai ammette di essere stata tradita dal suo amato radio. Marie muore il 4 luglio 1934, a 67 anni, per i danni al midollo osseo causati dall’esposizione alle radiazioni. Viene sepolta a Sceaux, accanto a Pierre, e poi spostata al Panthéon di Parigi, dove ancora oggi riposa, omaggiata da migliaia di turisti.

Noi siamo Marie: una per tutte, tutte per una! Buon 8 marzo.

Lisa Gino