Vino risponde a varieventuali: “Mi sembra eccessivamente tranchant il giudizio sul fallimento del Reddito di Inclusione, vi spiego perché”

Riceviamo e pubblichiamo alcune considerazioni di Augusto Vino sorte in merito all’articolo, pubblicato su questo giornale, “Povertà nell’eporediese: il Reddito di Inclusione ha fallito come politica sociale?

L’articolo pubblicato su questo giornale a proposito del Reddito di Inclusione a cui Vino risponde

Ho letto con interesse l’articolo sul Reddito di Inclusione che avete pubblicato nell’ultimo numero del giornale; mi sembra di grande utilità ragionare sul ReI, oggi che sta per essere abbandonato a favore del Reddito di Cittadinanza, senza che nessuna seria valutazione si sia fatta sulla misura e sulle interessanti esperienze che ha messo in movimento all’interno dei Consorzi.

Mi sembra tuttavia eccessivamente tranchant il giudizio sul fallimento del ReI. Di fatto questa misura è in vigore, come misura universale, senza altre condizioni di accesso che il livello di Isee dei richiedenti, solo da luglio di quest’anno, ed i progetti di inclusione definiti dal Consorzio sono, immagino, nella gran parte molto recenti, e quindi difficilmente ci si può aspettare che abbiano giù prodotto risultati di inclusione sociale per i destinatari.

Sugli aspetti di “successo” per la condizione dei destinatari, credo che andrebbe sospeso il giudizio, in attesa che i progetti – che avviano percorsi di inclusione – maturino i loro effetti. Quella che invece si può riconoscere – e su cui vorrei fare alcune considerazioni in queste righe – è la solidità dell’impianto del Reddito di Inclusione.

La misura nasce dalla elaborazione della Alleanza contro la Povertà – associazione che vede riunisce decine di organizzazioni, tra cui le Acli, Action Aid, Anci, Azione Cattolica Italiana, Caritas Italiana, Cgil-Cisl-Uil, Comunità di Sant’Egidio, Fondazione Banco Alimentare ONLUS, Forum Nazionale del Terzo Settore e molte altre – che da anni richiedeva l’introduzione in Italia di misure universalistiche di contrasto alla povertà, ed ha attivamente partecipato, interloquendo con il passato Governo, alla definizione e sperimentazione del SIA prima e del ReI successivamente.

L’idea di fondo è che la povertà sia un fenomeno con un pluralità di cause, che provoca marginalità sociale, e che su questa pluralità di cause occorra agire. Ricondurre la povertà e la marginalità alla mancanza di lavoro è sbagliato e smentito dalla realtà: numerosissimi sono infatti i “lavoratori poveri”, persone che, poiché lavorano sottopagate, o per brevi periodi, o in forme assolutamente precarie, vivono in una condizione di povertà. Così come, al contrario, sono numerosissime le persone in situazione di povertà per le quali è molto difficile poter pensare ad una ricollocazione lavorativa, perché oramai avanti negli anni, con competenze oramai non utilizzabili ed una enorme difficoltà a riconventirle.

Il ReI assume questa complessità e giustamente parla di progetti di inclusione ad ampio spettro, non solo lavorativa, nel tentativo di aggredire le situazioni di marginalità nella loro interezza – fatta di povertà educativa per i bambini, marginalità dalle reti sociali, accesso difficile quando non impossibile alle fonti di informazione e via dicendo.

Io ho sempre pensato che il nostro Paese dovesse dotarsi di una misura di contrasto alla povertà, a partire dal riconoscimento del “diritto di vivere dignitosamente”, senza altre condizioni, e che il ReI fosse ancora insufficiente.

Ma a fronte di questa complessità, il Reddito di Cittadinanza nasce con una impostazione molto debole, confonde e mischia tutti i piani, mette in capo ai Centri per l’Impiego una misura che, nelle stime correnti, riguarda al massimo un 30-40% di persone effettivamente occupabili – a prescindere dal fatto che vi sia o meno una offerta di lavoro sufficientemente ampia per queste persone – emarginando gli enti locali, che per definizione sono al centro delle reti sociali che costruiscono inclusione. E finisce intrappolata, per la confusione nella impostazione di base, in una folla di clausole vessatorie e paternalistiche.

Credo, per concludere, che oltre alla distinzione tra politica di destra e di sinistra – cui io rimango ancora affezionato – esista però anche la distinzione tra politiche intelligenti, che si sforzano di imparare dalle esperienze realizzate, e politiche stupide, che si pensano come l’ “anno zero”, l’inizio di qualcosa che non era mai esistito e che quindi non hanno nulla da imparare.

Il reddito di cittadinanza è forse una politica di sinistra, di sicuro è una politica “non intelligente”, nel senso in cui ho appena detto. E se già le politiche “intelligenti” faticano a produrre risultati, figuriamoci le altre… .

Augusto Vino