Visti da noi – Il diritto di uccidere

Parte bene la stagione 2017-2018 del Cineclub Ivrea

La definizione di “danni collaterali” è un travestimento del linguaggio che maschera e tenta di attenuare la gravità di un concetto molto semplice. Come si sa, i cosiddetti “danni collaterali” non sono altro che vittime di operazioni di guerra, vittime innocenti, vite spezzate e sacrificate che non hanno altra colpa se non quella di trovarsi, casualmente, nel posto sbagliato. Gente massacrata in nome del diritto di uccidere esercitato da alcuni primattori della guerra, per evitare un ipotetico, anche se probabile, numero ancora maggiore di perdite. In pratica si gioca, sul terreno della guerra preventiva, una partita dove i danni collaterali di minor entità dovrebbero vincere su quelli di maggior entità. Questa logica, solo apparentemente giustificabile, pone in realtà problemi etici e dilemmi decisionali di fortissimo impatto emotivo così come perfettamente illustra il film di Gavin Hood, seconda tappa nella rassegna appena avviata del Cineclub Ivrea. A mio parere, questo film, da solo, vale il prezzo della tessera, in quanto affronta contenuti attualissimi ed è una sollecitazione molto forte alla profondità della riflessione. Il film, che si avvale di interpreti straordinari, come Helen Mirren, è un meccanismo costruito sulla tensione che comporta la scelta di colpire un nemico di cui si studiano le mosse grazie ai miracoli della tecnologia. C’è una cellula terroristica da smantellare in un paese africano, c’è un drone americano in attesa di colpire, c’è una stanza che è un panorama di schermi da cui inglesi e americani controllano, a distanza, le mosse dei terroristi. Le immagini, per il prodigio surclassante della tecnologia in mano agli occidentali, rimbalzano sugli schermi, grazie alle manovre di altri droni, in forma minuscola di uno scarabeo o di un innocuo uccellino. Quando le riprese evidenziano che i terroristi si stanno imbottendo di esplosivo, la manovra anglo americana, da missione di cattura del nemico, diventa missione di annientamento preventivo. Ma le immagini, eloquenti quanto mai, rivelano anche il contorno dello scenario da colpire: fuori della casa, ove si annidano i terroristi, c’è un cortile e un muretto di cinta e, aldilà della cinta, una strada trafficata e una bambina con la sua piccola bancarella per vendere il pane.

A questo punto la bambina innocente assume il ruolo indiretto di possibile danno collaterale, una creatura ignara poco prima di essere straziata da un missile. Prima che il pulsante di comando venga premuto, nell’asettica stanza dei bottoni tappezzata di schermi, si consuma il dramma disperante della scelta, dramma che coinvolge ogni grado di responsabilità e gerarchia, dramma che il regista sottopone al massimo livello di tensione etica fino al punto estremo in cui ogni risposta morale svanisce, purtroppo, nella traiettoria di un missile.
Si è detto di questo film che il regista ha intelligentemente messo a confronto ogni opzione senza parteggiare per nessuna. E’ vero. Uno psicodramma, in odor di tragedia, dove ogni sfaccettatura è presa in esame e analizzata fino all’ultimo dettaglio. Alla fine, però, è la logica della guerra a prevalere, quella logica che, una volta innescata, non può sfuggire a se stessa. Colpire e uccidere come risposta a chi colpisce e uccide. Sul terreno dei conflitti, spesso sbiadiscono anche le ragioni che li hanno causati. Rimangono le vittime, quelle volute e quelle involontarie, classificate nell’asettica casella dei danni collaterali. La bambina, con il pane tra le braccia, agonizza nella polvere e poi muore in un un ospedale dove le telecamere volanti non possono seguirla. La vediamo noi, spettatori impotenti, vediamo il dolore e le lacrime dei suoi genitori.
Non ricordare mai a un soldato quanto disumana sia la guerra”, dice il generale alla più tenera delle figure che, nella camera degli schermi, si sono battute per salvarla. E così la guerra, la guerra che non muore mai, si vede ancora riconosciuto, nella coscienza dei suoi sostenitori, il diritto di uccidere.

Pierangelo Scala