A proposito dell’incontro sul modello Riace tra migrazione e integrazione al Liceo Gramsci di Ivrea

Cronaca di una bella iniziativa… mal riuscita!?

Forse questo sarebbe il titolo più adatto per il resoconto sincero dell’evento appena concluso, ma chi vorrebbe pubblicarlo e soprattutto leggerlo?
Un po’ come il detto “l’operazione è riuscita ma il paziente è morto”. Un paradosso. Un ossimoro. Una contraddizione ineludibile.
Eppure accade, è accaduto.
Mentre la città si prepara a celebrare il solito carnevale con religiosa e mistica devozione, gli studenti scalpitano per lasciarsi alle spalle interrogazioni, compiti e faticose prestazioni, con la prospettiva di immergersi nell’inebriante goliardia di prassi.
Il giorno prima delle agognate vacanze, a scuola, circa trecento ragazzi e ragazze assistono alla proiezione del docufilm “Un paese di Calabria” di Shu Aiello e Catherine Catella, alla presentazione del bel libro del prof. Antonio Rinaldis “Riace. Il paese dell’accoglienza” e alle testimonianze di migranti accolti dalla comunità eporediese.
Una cavalcata di tre ore. Dal ritmo lento e riflessivo, a tratti poetico e profondo, a tratti comparativo e suggestivo come sanno essere certi filmati al cinema. A tratti descrittivo ed esplicativo, incisivo e critico, come sa essere l’intervento di un professore che sale in cattedra. A tratti emozionante, partecipato e autentico come sono i racconti delle esperienze vissute e sofferte in prima persona.
In platea i ragazzi, tuttavia, rumoreggiano, sono stanchi, distratti e deconcentrati.

I cellulari sono la loro salvezza

Basta un click per immergersi in qualche mirabolante giochino, un altro click per rassicurare la mamma su WathsApp che il contatto è sempre attivo, un altro click ancora per messaggiare con il fidanzatino o la fidanzatina lontani.
Basta Wikipedia per controllare se esistono i Cpr, se il governo italiano ha finanziato i mercanti di uomini libici per trasformarsi in poliziotti di frontiera contro i cosiddetti clandestini e scoprire chi è Minniti. Tutto è a portata di click, veloce, preciso e puntuale.
La connessione però a volte salta. Allora piovono domande sul professore che si aggira minaccioso per riportare il silenzio: “prof ma quando finisce?”, “prof… sta roba mi serve per l’alternanza scuola-lavoro?”, “prof… non sono meglio le sue lezioni?”.

I cellulari sono anche la loro condanna

Come degli ipermoderni furgoni carcerari li portano dritti dritti nell’odierna, tecnocratica caverna di Platone dove, una volta entrati volontariamente, non c’è più il desiderio di uscirne. Le catene sono invisibili, l’incoscienza è felice, i problemi drammatici e la difficoltà di capire restano fuori.
Ad un tratto compaiono degli ex studenti, ascoltano le testimonianze dei migranti e si scandalizzano: “Ma davvero esistono dei campi di concentramento in Libia? Io non ne sapevo nulla”. Qualcuno di loro trova pure il coraggio di salire sul palco e dichiarare che bisogna dare più informazioni ai giovani. Qualcun altro promette di tornare, di collaborare per rendere certi temi più interessanti. Speriamo.
Certo bisogna riconoscere gli aspetti critici dell’iniziativa: è durata troppo, non c’è stato l’intervallo; il docufilm era lento, le tante, belle immagini di serena quotidianità condivisa tra riacesi ed emigrati troppo banali per emozionare; il professore era verboso e, forse, rispetto al film ripetitivo.
Ma bisogna anche riconoscere l’impegno non comune di Andrea Gaudino che ha presentato anche se convalescente, ed è riuscito a portare a scuola Samassi Souare’ Mohamed, Diaby Talby, Yannick Mkemto Nkenja, Moussa Diomandé, Ballo Noufo, Alpha Diallo Mamadou, Unity Omaghe, Keitha Siaka e Mohamed Sake. Le loro storie, le loro parole sono state le più efficaci ed apprezzate, un momento davvero importante, che qualche timido studente ha cercato ancora di catturare mentre gli altri uscivano alla spicciolata.
In conclusione non so se riusciremo a migliorare il look, l’editing, il packaging… ma continueremo a sforzarci di fare della scuola un luogo di informazione e approfondimento, di pensiero critico e impegno civile e sociale.
Risuona nella mente il verso della canzone che uno studente mi ha fatto ascoltare: I’m only human after all, don’t put your blame on me.
Bruna Mino