Calcio asfittico e malato

Astenersi è possibile

Non è un funerale, almeno non ancora, ma il calcio, lo spettacolo più popolare è amato, vive una delle sue stagioni più nere e perdute. Il rito del pallone rincorso da uomini in calzoncini e magliette colorate, che attrae da sempre milioni di appassionati in ogni angolo del pianeta, è diventato l’emblema negativo del business senza controllo. Il calcio come idea preminente del profitto, lo sport che smarrisce il suo significato, asservito anch’esso alla dittatura famelica del portafoglio. Lo stadio è spesso trasformato in un’arena dove sono di casa insulti e violenze di ogni genere ed è, al contempo, lo specchio di quella suddivisione sociale in cui stagna la società: le elites in tribuna d’onore, sempre al riparo da ogni accusa di infamia anche quando piovono cori razzisti, i mezzi poveri o i mezzi ricchi, se si preferisce, nei posti centrali, una volta definiti impropriamente “distinti” o nelle famigerate curve. Dico famigerate perchè, da sempre, nelle curve albergano le frange peggiori della tifoseria violenta, quelle che si sprangano vicendevolmente, intonano cori ingiuriosi e tramano spedizioni punitive contro i tifosi avversari. Nella guerriglia urbana tra sedicenti tifosi, recentemente a Milano un ultras interista ci ha lasciato la pelle, travolto e schiacciato da un’auto e, qualche giorno dopo, schiere di teppisti del calcio, energumeni biliosi, come se nulla fosse, si sono affrontati, durante una trasferta in pullman a Roma, in scene di guerriglia che nulla hanno a che fare con il calcio, ma che purtroppo al calcio fanno riferimento. Ormai nemmeno i morti ammazzati, come peraltro già è avvenuto in passato, riescono a scalfire la scorza d’insensibilità che plasma i cosiddetti rappresentanti del tifo.
Osservo lo spettacolo delirante dell’imbecillità generale legata a questo ex sport ormai declassato a livello di idiozia delinquenziale. Di certo, nell’epoca del linguaggio offeso, lacerato e ridotto ai minimi termini dall’abuso del telefonino, ricordare la funzione educativa delle parole può far sorridere, tuttavia, non si può più oggi parlare né di sport né tanto meno di tifo essendo il primo sacrificato sull’altare del business e il secondo rinnegato in nome della violenza.
Qualcuno, naturalmente, si è subito premurato nel raccomandare i necessari distinguo tra chi usa la violenza e strumentalizza il calcio e chi, invece, innocentemente vibra in nome della pura passione sportiva. Qualcuno, per rispondere ai cori razzisti dei “facinorosi pseudo tifosi” ha invocato la sospensione delle partite, subito stigmatizzato da altri, apertamente contrari che, arrampicandosi sui vetri delle esili motivazioni, hanno insistito sul fatto che non si possono penalizzare i molti per il brutale comportamento dei pochi. Il fatto è che i pochi sono molto numerosi e, a quanto pare, l’unica cosa che non si può arrestare o inceppare è il meccanismo a spirale dei grandi guadagni che il calcio produce. Su questa logica risaputa, ma volutamente ignorata, si costruiscono speculazioni sulle spalle dei gonzi, disposti a strapagare magliette feticcio di Ronaldo e a popolare luoghi come gli stadi che grondano volgarità e nascondono pericoli peggiori di quelli in agguato nei quartieri del degrado urbano. Ipocritamente si lanciano appelli e richiami allo sport che dovrebbe difendere (almeno lo sport) i cosiddetti valori della dignità umana come se, all’improvviso, il pallone potesse sottrarsi al dominio dei soldi e riscattare un’autonomia morale in favore di tutti.
Ma, come detto, lo sport non è più tale e la sua morale è una vittima che affonda nel fiume dei soldi. E’ il caso della finale di supercoppa italiana appena giocata tra Juventus e Milan, finale che ha scatenato ampie polemiche perché la partita è stata esportata in Arabia Saudita, terra non proprio all’avanguardia per quel che riguarda i diritti umani, in generale, e delle donne in particolare.
Queste ultime sono state confinate in settori dello stadio ben appartati e lontani da quelli occupati dai maschi singles, perché si sa che la morale va sempre preservata anche a costo di erigere barriere murarie. Secondo alcuni, dunque, la Lega calcio italiana avrebbe dovuto farsi paladina dei diritti violati delle donne e non permettere lo svolgimento di questo incontro nella città di Gedda. Anche questa volta si chiede sempre a qualcun altro, in questo caso lo sport, di assumere iniziative in rispetto della dignità umana. La retorica esige sempre che si faccia finta di indignarsi senza però disturbare gli affari. La lega calcio intasca i petroldollari come fanno i nostri governi che, in nome dei buoni rapporti commerciali con l’Arabia Saudita, agli arabi vendono anche le armi, senza che nessuno abbia da ridire sui diritti violati, anche se di mezzo salta il diritto alla vita.
D’altronde, con l’aria profumata di civiltà, che aleggia nei nostri stadi, non so se una donna araba si troverebbe più a suo agio nello stadio a scompartimenti stagni di Gedda, oppure in una delle nostre curve promiscue e libere di fare ogni cosa, compresa quella di sventolare bandiere nere o con la croce nazista. Norberto Bobbio diceva che il vero limite della democrazia è la troppa democrazia. Prima di sperare che il calcio faccia la rivoluzione per i diritti delle donne arabe, forse bisognerebbe bonificare i nostri stadi ma, purtroppo, anche qui, occorre lasciar correre altrimenti ne risentono gli incassi.
Per la cronaca, a Gedda ha vinto la Juventus e, come è calato il sipario del fine partita, anche le polemiche sono terminate. Delle donne che ondeggiano, come ombre nere nei chador, a nessuno è importato più nulla. La festa è finita e i contratti milionari sono stati salvaguardati.
Ritornando agli “standard sportivi” di casa nostra, io sono francamente stanco di tutti quelli che dicono che i delinquenti violenti e razzisti sono una minoranza. Anche se fosse vero, questa presunta minoranza ottiene l’indiretta complicità di tutti quelli che le fanno bella compagnia all’interno di uno stadio. Mi domando come un tifoso normale possa assistere imperterrito a un incontro di calcio, magari tenendo per mano suo figlio, quando in campo volano banane o le orecchie sono sature di cori razzisti. Se i valori umani e l’amore per l’educazione civile e per il calcio, inteso come sport, avessero il sopravvento, questo tifoso dovrebbe compiere l’unico atto possibile, il gesto netto, liberatorio e non violento di guadagnare al volo l’uscita.
Questo sarebbe il primo passo veramente rivoluzionario per una rifondazione etica dello sport, l’unico, tra l’altro, a costo economico zero, anzi con la prospettiva di risparmiare dei soldi invece di gettarli in un divertimento inquinato da ingiurie e violenze. Veri tifosi, se ancora esistete, credetemi, da questo tipo di calcio maleducato e sfruttato ci si può benissimo astenere, con salutare vantaggio anche per la propria dignità personale.

Pierangelo Scala