C’era una volta

Era novembre del 1997, esattamente 20 anni fa, quando venni assunta dall’allora neonata Omnitel per lavorare come operatrice al call center: una figura professionale nuova di zecca. Il mio primo contratto era a tempo determinato, part-time (5 ore) per 18 mesi. Dopo soli 4 mesi venne trasformato in full time a tempo indeterminato.

Mi chiamarono nell’ufficio dell’area manager (che quasi ovunque ancora era altrimenti conosciuto come capo ufficio) e mi chiesero se mi andava bene il passaggio da 5 ore a 8 e da tempo determinato a tempo indeterminato. Ed io non trovai strana la domanda. Era normale il contratto ti venisse confermato se non addirittura migliorato, dunque nessuno stupore.

Le assunzioni procedevano a gruppi di circa 15 persone per volta, le quali venivano mandate in aula di formazione (training) per le prime tre settimane di lavoro (la formazione era retribuita – spiego per le nuove generazioni: faceva parte del lavoro stesso). Un gruppo ogni circa due o tre mesi. In aula si veniva accolti da due formatrici, affiancate da una psicologa sempre a disposizione, e si imparava tutto, ma proprio tutto, quello che c’era da sapere circa il lavoro che si sarebbe svolto: quali erano i prodotti/servizi, come venivano erogati e fatturati, cos’era una rete gsm (questa parte la affrontava direttamente uno degli ingegneri di rete), come funzionavano i vari modelli di telefono allora sul mercato e supportati dalla rete Omnitel: così come a militare si imparava a montare e smontare un fucile, noi imparavamo a montare e smontare un cellulare, ad occhi chiusi e in una manciata di secondi. Tre settimane di studio, con tanto di manuale (un tomo pesantissimo), simulazioni, domande, dibattiti, prove scritte, eccettera eccetera. Il gruppo sarebbe restato unito per sempre,  quelli erano i tuoi compagni, parte del tuo nuovo te, moschettieri: uno per tutti, tutti per uno. Tre settimane di cui gli ultimi giorni, per metà tempo, in affiancamento agli operatori già in servizio, i quali, con molto orgoglio, servivano la loro sapienza su un vassoio d’argento, cercando di fare bella figura. Essere scelto come operatore a cui affiancare i nuovi arrivati era considerato un onore incredibile. Si faceva a gara per poter essere inseriti nella lista. Ricordo perfettamente i miei. Erano dei nuovi padrini o madrine. “A chi ti affianchi tu?” “A Tizia” “Ahhhh, io sono con Tizia domani!” Ricordo anche la prima volta che il supervisor (una volta era l’equivalente del team leader, ora ha maturato un grado in più e sta sopra al team leader) di turno scelse me come operatrice a cui affiancare uno dei nuovi: una scossa di adrenalina. Manco avessi vinto l’Oscar.

L’ufficio era un grande open space con molte postazioni (dette positions) ad isola (4 per isola), le sedie erano state studiate ergonomicamente per non recare danni fisici e costavano l’ira di Dio, i computer erano nuovi di pacca, ad ognuno venivano date un paio di cuffiette personali, morbide e comode, da mettere in una apposita scatoletta con tanto di nome sopra, guai a chi osava prenderne un paio non sue. Al fondo c’era un altro ufficio simile per le attivazioni, dove lavoravano operatori che, appunto, venivano formati per attivare i contratti. L’eldorado! Tutti volevamo andarci: quelli erano bravi. E poi, beh, sì, non avevano i clienti direttamente al telefono. Ma il rapporto al telefono coi clienti  allora  era di tutt’altro tipo rispetto ad adesso. Si doveva davvero risolvere un problema o dare una informazione, nella maniera più corretta possibile. Il clente era sacro, bisognava rispettarlo. Ne andava del buon nome dell’Azienda. Ricordo con particolare piacere le sere dopo le 21 (si lavorava fino alle 24), quando, rimasti in pochi, decidevamo di riunirci seduti vicini per poterci parlare tra una chiamata e l’altra, il suggerimento veniva spesso dal supervisor, che era il primo a partecipare a scherzi e scambi di battute, per allentare la tensione. Ricordo che quando arrivava una telefonata ostica era una questione di puntiglio risolverla positivamente a qualsiasi costo: si chiedeva aiuto, si mobilitavano i colleghi accanto, fino alla vittoria. Una sera riuscimmo a fare una ricarica ad un cliente che si trovava all’estero e in difficoltà perché aveva un telefono non supportato, dopo circa due ore di prove e riprove: ricevemmo poi una lettera di ringraziamenti con tanto di nomi e cognomi (i nostri). Non è il libro Cuore, succedeva due decenni fa. Ma è passato un secolo.

Il supervisor era aiutato da operatori con più anzianità di servizio, detti senior. L’inglese stava entrando sinuosamente nel nostro parlato quotidiano, sostituendo parole italiane  perfettamente in grado di rendere l’idea. E a noi pareva una figata pazzesca diventare molto americani. Ovviamente c’erano i capi simpatici, quelli meno simpatici, quelli più morbidi e quelli più intransigenti, come è normale quando si ha a che fare con esseri umani. C’erano liti, discussioni, malumori. Ma ancora c’era la sensazione di essere parte di qualcosa, di poterlo condivedere, nel bene e nel male. C’erano i privilegi e i soliti privilegiati (i capi erano tutti più o meno imparentati con ex dirigenti Olivetti), c’erano però anche i riconoscimenti di merito (applicati ai casi di non parentela) e le possibilità di carriera, per chi lo voleva.

Il contratto era chiaro, te ne veniva fornita una copia, invitandoti a leggerlo attentamente. Per qualsiasi dubbio o domanda, l’ufficio del personale era sempre aperto.  Scienza, non fantascienza. Le ore supplementari, che adesso infestano contratti farsa, ci avrebbero fatti morir dal ridere, ci sarebbero sembrate una battuta di Zelig. Le uniche ore valide erano quelle regolari e quelle di straordinario. I supplementari e i rigori li guardavamo in tv.

Rimasi in call center poco più di un anno, poi tramite una ricerca interna venni presa all’ufficio del personale, come segretaria del direttore. E poi ancora passai alla Sicurezza Aziendale. Omnitel nel frattempo era diventata Vodafone-Omnitel e poi soltanto Vodafone, quella che ancora oggi esiste e fa la guerra ai suoi dipendenti, li trasferisce per punizione a 200 km di distanza, oppure li vende ad altre società, come se fossero prosciutti. Ho raccontato questa storia perché ancora non posso credere a quel che siamo diventati, dico siamo, sì, è colpa di tutti noi. Era l’inizio di una nuova era. Poi qualcosa ci è sfuggito di mano.

Lisa Gino

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