Chi oggi allestisce un campo profughi ha mai visitato Auschwitz?

Il racconto di Giulia, di ritorno dal Treno della Memoria

Di Marie Jelinkova sappiamo che era nata nel 1910 e che muore nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943. Il nome e le due date sono scritte su un pezzetto di stoffa bianca che Giulia Guerrini mi mostra prendendolo con estrema delicatezza dal suo zaino.
Giulia frequenta la classe quinta del liceo Botta di Ivrea ed è salita sul Treno della Memoria insieme a molti suoi compagni di scuola che hanno deciso come lei, singolarmente, di intraprendere un viaggio durato dall’1 all’8 febbraio che ha toccato Berlino e Cracovia.

A Berlino abbiamo visitato tutti i memoriali, poi siamo stati a Ravensbrück, a Cracovia (con il ghetto ebraico e la fabbrica di Schindler) e nei campi di Auschwitz e Birkenau, per finire poi con una assemblea di ‘restituzione’ dove eravamo oltre seicento.
Ad accompagnarci, oltre naturalmente alle guide, c’era un gruppo di cinque attori che ci ha regalato letture e momenti di drammatizzazione in diversi punti della città, dentro a una sinagoga o dentro a un campo. Ricordo in particolare la prima volta, durante la visita alla città di Cracovia (non sapevamo nulla ed è stato molto coinvolgente) e poi al campo di Birkenau, dove abbiamo assistito a un loro piccolo spettacolo terminato con dei canti in lingua ebraica, anche questo un momento toccante.

Racconto a Giulia che ho da tempo in mente di fare questo viaggio e che quella che mi spinge è la certezza di provare un sentimento che è oltre tutto quanto conosciuto, letto, visto, ascoltato su questo tema. Quasi come se tutto quell’orrore trovasse, soltanto lì, un corpo, una identità.

Pur se nessuno di noi, ovviamente, era digiuno di informazioni e molto ci hanno raccontato le guide, quando sei lì ti chiedi come, davvero, una mente umana possa aver pensato di infliggere tutto questo ad altri umani. E’ il pensiero dell’assurdità a ricorrere continuamente in quei momenti. E a seguire, inevitabile purtroppo, la consapevolezza che anche oggi ci sono situazioni che somigliano a quelle, campi che tragicamente a quei campi somigliano. Ho detto purtroppo, ma dovrei dire per fortuna c’è questa consapevolezza, che quanto successo in quegli anni, oggi possa ripresentarsi, se pure in altre forme e altre modalità. Ma con la violenza, la disumanità, quelle ci sono. Appena ad Auschwitz ti si presentano quelle montagne di scarpe, quelle trecce di capelli. Il primo pensiero è di non guardare, di passare oltre; invece non lo fai e vinci quella che credo alla fine sia paura, insieme alla conferma che sì, è una cosa possibile, è successa, eccola lì. Quando studio storia e affronto un periodo di distruzione il pensiero in automatico è che non succederà più. Non è così, non abbiamo imparato nulla e, soprattutto, non è sufficiente sapere. Chissà se chi oggi allestisce un campo profughi ha mai visitato Auschwitz o un altro luogo come quello.

E’ la banalità del male di cui ci parla Hannah Arendt, gli uomini che si giustificano dicendo che obbedivano agli ordini, la gente intorno che vedeva le persone sparire e il fumo uscire dai camini.

Una delle guide ci raccontò un episodio a questo proposito. Vicino a Ravensbrück c’era un lago e sull’altra riva del lago un paese. I bambini incontravano le guardie del campo e chiedevano loro di fare ancora nevicare e quella neve era la cenere del fumo dei camini che cadeva per terra in spessi strati e con cui loro giocavano. L’orrore ce l’avevano vicino a casa, intorno, impossibile non sapere, immaginare.

Come si trasformavano le vostre giornate con questa esperienza al centro?

La sera la regola non scritta e non detta era non parlarne. Credo fosse il bisogno di prendere fiato, di respirare una boccata d’aria pura, di distrarci. Ma c’erano momenti di incontro durante il viaggio dove insieme alle educatrici (che ci hanno accompagnato insieme alle guide) ciascuno di noi poteva parlare, raccontare, scrivere le proprie impressioni. Ci chiesero anche di provare a immedesimarsi in qualcuno dei prigionieri, ma questo io non l’ho fatto, perché mi è sembrato davvero impossibile. Vero è che sei obbligato a fare un confronto con la tua vita e allora è inevitabile vedere le cose ‘normali’ che normali non erano. La tua famiglia, poterti comprare un vestito o tingerti i capelli, poter dire quello che pensi, mangiare, usare il bagno… avere un nome.

E poi si torna a casa

Sì. E sei molto, molto provata. E hai bisogno di tempo per elaborare, soprattutto la visita nei campi. C’è chi lo fa subito, chi ci mette una settimana… Io nell’immediato ho provato il desiderio di cancellare quelle immagini, quei flash back che improvvisamente ti tornano davanti. Ma dura solo un momento. Poi sai perfettamente che invece quelle immagini ti servono. Magari non ti ricorderai tutte le cose che hai visto, ma le cose fondamentali rimangono E’ un viaggio introspettivo, un viaggio che fai anche dentro te stessa. Personalmente sono tornata con una grande voglia di condividere quell’esperienza. A scuola non abbiamo avuto momenti organizzati in cui raccontare a chi non è venuto quello che abbiamo visto. La mia insegnante di lettere, quando ha saputo che avevamo scritto delle cose ci ha chiesto di leggerle, questo sì, ma non c’è stato un momento di condivisione collettiva. Io ho raccontato ai miei genitori e a mia sorella, ma a pezzetti. Tutto sarebbe stato ‘troppo’, per me e per loro, credo. Ma le cose da dire sono davvero tante.

Che cosa ti ha fatto ‘disperare’, desiderare di tirare su un muro tra te e quelle immagini?

Sicuramente la crudeltà. La crudeltà contro persone completamente inermi. La loro innocenza contro questa violenza inaudita.

Un peso enorme per il popolo tedesco, per chi è venuto dopo, non credi?

Indubbiamente. Penso al peso, alla vergogna, di chi pur senza colpa alcuna appartiene a quel popolo. Ma anche il peso di chi si è salvato, è tornato e sicuramente (I sommersi e i salvati di Primo Levi) oltre al ricordo di ogni singolo giorno ha quello di tutti coloro con cui ha diviso quell’orrore, l’annientamento del corpo (i capelli rasati, il numero marchiato) e quello dell’anima. al posto del nome che rischiavi di dimenticare e non è tornato. Ragione in più per rifiutarsi di provare a immaginarsi in quella situazione. Pensare subito che avresti scelto di morire e invece, l’attaccamento disperato alla vita non li ha mai abbandonati. E quindi silenzio e rispetto. E memoria da conservare. Una cosa bella per ciascuno di noi è stata scegliere il nome di uno o una di loro e scriverlo su un pezzo di stoffa. Che da quel giorno porto sempre con me.

Giulia Guerrini, 5 B Liceo Botta (con Simonetta Valenti)