Compagni, non ci è stata amica la fortuna …

La testimonianza di Anna, figlia del partigiano Augusto Trezzi che era a Lace quel maledetto 29 gennaio 1945

Mio padre, Augusto Trezzi, aveva già 29 anni quando entrò nel distaccamento partigiano di Lace.
Aveva fatto la campagna di Russia ed era tornato dopo un viaggio allucinante in mezzo alla neve, guidato dal tenente Romano insieme a molti commilitoni, non ricordo esattamente quanti erano i fanti della fanteria aggregata agli alpini.
In pochi riuscirono a prendere il treno per tornare in Italia, mentre moltissimi morirono nella neve. Si fermavano e si addormentavano. Inutile scuoterli, si doveva lasciarli e continuare a camminare. E, dopo un viaggio allucinante, arrivarono a Padova. In ospedale il medico li esortò a non mangiare perché altrimenti sarebbero morti. Mio padre Augusto, che pesava solo più 38 Kg, lo ascoltò.

Fu poi inviato in Sicilia, a fare “la contumacia“, come diceva lui. Si riprese; perse solo molti denti per lo sbalzo termico subito, da 40 gradi sotto zero a 40 sopra.
Dopo l’8 settembre attraversò lo stretto di Messina e tornò a casa, per buona parte a piedi e per un’altra con il treno. Il macchinista suonava due volte e loro si gettavano di sotto. Era il segnale convenuto.
Giunse al borgo natio e la voce del suo ritorno si sparse rapida in paese. Il mattino dopo, alle sette, ecco i fascisti venuti per catturarlo. Prontamente si nascose nella grande cassa da corredo che la madre aveva portato dalla sua famiglia e sopra mise pesanti lenzuola di canapa asciutte dal bucato. La mamma faceva la lavandaia. I fascisti aprirono la cassa, entrarono sulle lenzuola con uno stiletto, ma la stoffa di canapa fece resistenza e non lo videro, pensando che fosse riuscito a fuggire. L’aveva scampata.
Comprese che doveva entrare nei Partigiani. Lo chiese all’Adriano Rossetti di Mongrando Ceresane, padre della Liliana e marito della Fifina e la sera stessa partì per Donato Lace. Gli diedero due muli e il compito di approvvigionare di quanto necessario i distaccamenti partigiani di Sala, Bornasco, Torrazzo e Machaby. Iniziò così la sua vita d Partigiano. Comandante era DIego Prella, di Sala, “Folgore“.
E veniamo a quanto accadde il 29 gennaio del 1945. La settimana precedente era stato catturato un giovane partigiano che aveva parlato e nella notte del 29 gennaio 1945, passando per la strada principale che da Donato scende a Lace, erano giunti circa 80 tedeschi vestiti di bianco, con un gruppo di fascisti, nel più grande silenzio.
La sentinella Crotta Piero sparò un colpo; venne freddato all’istante e la cascina bruciata. Poi scesero poco sotto nella cascina detta “Du Ratà”, catturarono gli undici il cui nome è ricordato nel cippo e incendiarono la cascina. Era venuta molta neve quell’anno ed era una notte di luna piena. Una luna così chiara, forse perché riflessa dal bianco della nevicata e pareva fosse giorno.
Mia madre Elisabetta, con la cognata Delfina, li vide passare dal finestrino che si affacciava sulla strada e  corse a nascondere le mostrine che aveva da cucire sulle giacche dei partigiani. Poi udirono gli spari. Mio padre Augusto dormiva con altri quattro compagni in una cascina all’ingresso di Lace. Riposava sempre vestito. Socchiuse piano le ante della finestra e si rese conto che non avevano circondato la cascina, né messo delle sentinelle. Chiamò i compagni e con un balzo di tre metri piombarono nella neve, traversarono rapidi la strada e fuggirono verso Netro. Duilio Graziano, emigrato poi in Francia a guerra finita, ebbe un principio di congelamento ai piedi, ma la vita salva.
Il resto della storia lo conosciamo benissimo. Nel frattempo, tre fascisti si apprestarono a salire le scale. Al primo piano dormiva un uomo abbastanza anziano di nome Giuanoto, che prese una scala a mano e salì in solaio. Poi, nel cono d’ombra della luna, raccolse la scala e la pose accanto a lui in solaio dove si era nascosto. Dormiva al piano terreno una donna di nome Aurora che scappò verso la Bosa. Dal grande spavento morì due mesi dopo. Il suo cuore già malandato non aveva retto. I fascisti appiccarono il fuoco. Giuanoto attese che se ne fossero andati e con l’aiuto anche degli altri abitanti di Lace spensero l’incendio.
I partigiani ripresero la loro attività e mio padre Augusto fu poi catturato lungo la strada che da Andrate conduce a Sala e messo in prigione a Biella Piazzo. Ogni due giorni veniva portato a Villa Schneider e lì picchiato e torturato. Resse e non parlò mai. Fu poi scambiato a Mongrando Caresane con un ufficiale tedesco. La sorella Annita, che era andata per portargli del cibo, fu picchiata con il nerbo di bue e si fece due mesi di ospedale. Questa è la triste storia avvenuta a Lace il 29 gennaio 1945.