Dalle mascherate alle mascherine, la paura si chiama “Corona virus”

“L’uomo, in genere, non regge a lungo il pensiero della malattia e della morte dimenticandosene alla prima occasione o al primo locale pubblico riaperto”. Sul Coronavirus e sugli effetti sociali che si porta dietro

Il Covid-19, come il nome di un razzo spaziale, sfonda i confini dello status quo e dell’assuefazione generale, creando scompiglio e novità. Lo fa con una potenza d’urto virulenta, è il caso di dirlo, tale da provocare una psicosi generale. Il potere di una malattia contagiosa, di un’epidemia a minaccia pandemica, sembra addirittura superiore a quello egemone del mercato, alla dittatura del business e del profitto. Carnevali e occasioni di assembramento vengono sospesi, supermercati presi d’assalto, mascherine antivirus e prodotti disinfettanti andati a ruba, cinema e musei chiusi, provvedimenti e contromisure drastiche e draconiane dappertutto. Insomma un generale sconvolgimento della vita ordinaria, cosa che non producono né il rischio di un imminente tracollo ambientale, tipo il mare che divora Venezia, l’orso bianco in predicato di estinzione, la banchisa polare che si sfalda per l’effetto serra o l’inverno mai nato, con una temperatura che, a febbraio, ti stuzzica quasi con l’idea di fare un bagno al lago Sirio.

Queste cose, in fondo, non sono contagiose e non scalfiscono l’indifferenza che regna sovrana. Si pensa che facciano parte di un equilibrio solo provvisoriamente alterato, ma non pericoloso. E poi ci sono i negazionisti e gli affaristi impegnati a tranquillizzarci, i professionisti del saccheggio e dello sfruttamento ad ogni costo, quelli a cui, in fondo, siamo più propensi a credere perché anche noi siamo come lo scorpione che punge la rana che lo traghetta verso la riva o come la metastasi che divora il corpo che la ospita e le permette di vivere. In molti ci dicono che nulla è compromesso e c’è ancora tempo, eventualmente, per sistemare le cose senza cedere ad inutili allarmismi. Bisogna stare alla larga dagli allarmismi.

Dal cadere in preda al panico ci guardiamo bene anche quando vediamo un cinese che, in tv per il Corona virus, stramazza in una strada di Wuhan come colpito da un drone. Il Corona virus, come la malattia e la morte in genere, non ci riguardano. In Italia il Covid-19 è diventato veicolo di follia generale solo quando ci ha colpito direttamente. In fondo, siccome nessuno è razzista, finché il virus colpiva i cinesi potevamo stare tranquilli non avendo noi zigomi pronunciati né pelle color di limone. E poi non dimentichiamo che i più preoccupati e timorosi del contagio avrebbero potuto mettere in fuga gli untori cinesi prendendoli a sassate o a bottigliate come in effetti, in qualche caso, è avvenuto.
Adesso che gli untori stiamo noi, ci si appella ad altre scorciatoie per esorcizzare la paura. In fondo il Corona virus è meno pericoloso dell’influenza comune che fa molti più morti oppure, se questo ragionamento non facesse da antidoto alla fifa, si può sempre pensare che a crepare siano solo gli anziani consentendo ai più giovani di rilassarsi riempiendosi il carrello del Bennet, con inutili provviste perché tanto non si sa mai.

A Ivrea, tra polemiche varie, è saltato, come a Venezia, il Carnevale e, pur dispiacendoci per la festa implosa nella drasticità del provvedimento a cautela di ogni rischio per la salute, uno degli interrogativi più diffusi, tra il popolo ribelle di Violetta, è stato quello che concerneva il destino delle arance risparmiate.
In fondo siamo sempre alla ricerca di una vita dagli esiti garantiti e blindati anche nei suoi aspetti meno significativi. Essendo insicuri ci accontentiamo anche di assicurazioni a buon mercato sul buon destino delle arance della battaglia mancata e, comunque, già condannate, come risaputo, al macero.

In ogni caso credo che la paura della malattia e della morte abbiano impennate intense, ma brevi.
A meno che il Corona virus, erroneamente definito dai media come “non mortale” invece che “non letale”, non evolva in una vera pandemia, fifa e disagi non dureranno. L’uomo, in genere, non regge a lungo il pensiero della malattia e della morte dimenticandosene alla prima occasione o al primo locale pubblico riaperto.
Invece, forse, questi due attori della vita (malattia e morte) si sforzano di inviarci messaggi da cogliere come suggerimenti per correggere stili di vita e tendenze troppo desensibilizzate e materialiste.

Ci sono cose che cambiano la routine della vita proprio come la morte, la malattia, la paura e il coraggio
. Le prime tre sono molto più forti dell’ultima che è quella che, invece, ci servirebbe di più. Dalla psicosi di massa si arriva a dei cambiamenti d’abitudine che forse, nell’interconnessione generale dei fenomeni e nella complessità del globale, potrebbero anche rappresentare un bene.
Se, per esempio, la plastica diventasse infettiva procurandoci rivoltanti e dolorose piaghe sulle mani, magari la bandiremmo domani mattina, come già dovrebbe avvenire, senza preoccuparci oltre degli scompensi in campo economico che potrebbero derivarne.
In un certo senso il Covid-19 dimostra che la malattia prende decisioni in barba alle logiche di mercato (a meno che, assolutizzando il potere del mercato e dei governi che lo assecondano, non si dia credito alle teorie complottiste).
Certo che, sul risveglio di coscienza, non c’è da farsi grandi illusioni se anche un’autorevole e riflessiva giornalista, che va per la maggiore, titolava un suo pezzo con un: “Ridatemi l’allegria della mia Milano” .
Siamo a qualche ora dai provvedimenti restrittivi, adottati per circoscrivere un virus a contagio veloce, e già non si può fare a meno della movida, degli aperitivi, della vita sociale, cinema, teatro e musei.
A volte, le risposte lumeggiano in frasi che stimati giornalisti, insieme a noi tutti, farebbero bene a ricordare. Blaise Pascal diceva che: “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo” aforisma di cui, su suggerimento del corona virus, dovremmo fare tesoro.

Pierangelo Scala