Disagio mentale e assistenza in tempo di pandemia

G.M. , giovane del Canavese, lavora come educatore professionale sociosanitario in una comunità torinese che si occupa di disabili psichici. In questi tempi difficili per tutti lo abbiamo intervistato per saperne di più su come utenti e lavoratori di queste comunità, di cui già normalmente ignoriamo l’esistenza, stiano affrontando l’emergenza

 

Iniziamo dalla base, in cosa consiste il tuo lavoro come educatore?

G.M.: Lavoro in una comunità residenziale che ospita una decina di utenti con varie disabilità psichiche. Il nostro ruolo non è solamente assistenziale ma anche educativo e sociale, ci vedono tutti i giorni ed in questo modo si sviluppa un rapporto indispensabile per loro. Ci occupiamo delle loro necessità fisiche e mentali con attività di vario genere in modo che abbiano una vita dignitosa.

Come è cambiato il tuo lavoro con lo scattare dell’emergenza coronavirus?

G.M.: Già da fine febbraio quando si iniziava a parlare di pandemia ma ancora non erano scattate le misure di sicurezza, abbiamo eliminato le uscite all’esterno, anche se le attività all’interno con volontari da fuori continuavano. Quando a inizio Marzo è scattata l’ordinanza siamo stati costretti a fermare anche queste ultime. Non solo, abbiamo dovuto lasciare a casa anche figure di supporto come volontari del servizio civile e tirocinanti, essenziali per ridurre il lavoro di cura quotidiana e permettere agli educatori di socializzare realmente con l’utente e svolgere appieno la sua funzione.

Vi sono state fornite attrezzature adeguate?

G.M.: Tutti i D.P.I. (dispositivi di protezione individuale) ci sono stati forniti, non solo mascherine anche divise e scarpe, anche se a causa della grande richiesta nazionale sono arrivate solo tre settimane fa. Prima ancora di cambiarci al mattino dobbiamo sottoporci al triage che consiste in un’autocertificazione dello stato di salute, misurazione della temperatura e saturimetria del sangue.

E queste misure si sono rivelate efficaci?

G.M.: Per fortuna non abbiamo casi, quindi sì. Se per sfortuna dovesse accadere il protocollo prevede la quarantena per noi operatori, che verremmo sostituiti da personale dell’Asl. Sarebbe un bello shock per i nostri utenti, considerando quanto già sia complicato per loro il fatto che noi indossiamo una mascherina, mentre il personale Asl indossa grosse tute anticontaminazione. Per non parlare del fattore personale: molti dei nostri utenti non hanno una casa o una famiglia che se ne possa prendere cura, l’operatore diventa la loro famiglia, cosa che rende ovviamente più difficile anche il discorso del distanziamento sociale.

Riuscite a spiegare la situazione ai vostri utenti? Immagino sia ancora più difficile per loro.

G.M.: Riusciamo a spiegarglielo e lo capiscono, ma interiorizzarlo è molto più difficile, bisogna fare attenzione. La loro situazione è ovviamente peggiore della nostra, quasi tutti sono molto fragili anche fisicamente e quindi più esposti, anche per questo le misure sono così rigide: i centri residenziali permanenti per disabili sono considerati ad alto rischio, come le R.S.A.. Non possono uscire se non sul balcone, né possono vedere i parenti anche se alcuni fanno delle video-chiamate. L’essenziale per la sopravvivenza è garantito ma il vero problema è riuscire a tenerli occupati senza poterli mai far uscire.

Tutti i centri di questo tipo rimangono aperti?

G.M.: Quelli residenziali sì, compresi i gruppi di appartamenti e le comunità alloggio, seppur con tutte le limitazioni del caso. La vera tragedia è la chiusura dei centri diurni e di sollievo familiare, centri che si prendevano in carico la gestione dei disabili mentali durante la giornata togliendo almeno una parte del carico di lavoro dalle spalle delle famiglie. Sono i centri semi-permanenti di tutti i tipi, non solo pensati per i disabili mentali ma anche per la riduzione del danno con i tossicodipendenti, o le comunità per minori. Ovviamente sono posti considerati ad alto rischio e per questo la chiusura è stata inevitabile, ma ciò significa anche che ci sono migliaia di utenti di queste strutture attualmente a completo carico della famiglia con in più tutte le misure anti-contagio del caso.

Immagino che ciò abbia un effetto negativo sulla psiche dei disabili stessi oltre al carico di lavoro che scarica sulle famiglie.

G.M.: Ovviamente sì anche se con dovute differenze. Le condizioni familiari economiche e sociali preesistenti influiscono molto su come quest’esperienza può essere vissuta, cosa di cui spesso tendiamo a dimenticarci.

Quanto influisce la chiusura dei centri semi-permanenti con le vostre condizioni lavorative?

G.M.: La chiusura di questi centri ha lasciato ovviamente un gran numero di operatori senza lavoro. Tuttavia parte di questi operatori sono soci delle cooperative che si occupano anche dei centri residenziali permanenti come il mio. Le cooperative sono quindi obbligate a garantire un impiego per primi ai soci. Ciò significa che chiunque non sia un socio, ad esempio chiunque abbia un contratto a progetto o a tempo determinato, viene automaticamente lasciato a casa per liberare il posto ai soci della cooperativa momentaneamente senza lavoro. La speranza sarebbe quella di reintegrare tutti questi lavoratori una volta terminata l’emergenza, con la riapertura dei centri diurni e il ritorno dei soci nelle precedenti posizioni di lavoro. Ovviamente non vi è alcuna sicurezza riguardo al reintegro dei precedenti lavoratori, né si sa ad oggi quando questi centri potranno effettivamente riaprire, ma anche ammesso che tutto vada bene ciò significa inevitabilmente la perdita dell’anzianità maturata. Sempre che si ricominci a lavorare, sarebbe come riiniziare da zero.

Lorenzo Zaccagnini