Dott. Stranaronda, ovvero come imparammo a preoccuparci troppo e amare i “gruppi di controllo del vicinato”

Spunti critici alla luce della nuova legge regionale sulla sicurezza. Come trasformare un’insicurezza percepita in un’invadente e partecipata esibizione securitaria?

La risposta a questa promettente domanda sembrano averla trovata alcuni frequentatori di Palazzo Lascaris, dove il Consiglio regionale ha approvato, in data 16 dicembre, una nuova legge per la sicurezza; questa sarebbe da applicarsi con i contributi straordinari stanziati per fronteggiare l’attuale emergenza pandemica. Il cosiddetto piano triennale per la sicurezza integrata era stato presentato, nelle scorse sedute, dall’assessore alla sicurezza Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega nel Consiglio regionale. Al suo interno si legge di diverse prevedibili misure, tra cui l’adozione di un sofisticato – e costoso – apparato di videosorveglianza che arriverebbe a includere, oltre alle classiche telecamere per la supervisione dei luoghi “sensibili”, sistemi dinamici per la lettura delle targhe e per il riconoscimento facciale, strumenti per la registrazione dei dati nei taxi e, ciliegina sulla torta, anche le cosiddette body-cam: telecamere portatili da far indossare agli agenti sulla testa o sulle spalle, in uno spirito hollywoodiano che trasformerebbe gli agenti nostrani in professionali e tecnologici poliziotti all’americana. C’è di più: l’assessore ha incluso nel piano l’ennesimo tentativo di coinvolgimento dei cittadini nelle attività di ordine pubblico: questo avverrebbe attraverso una non meglio specificata attività di formazione ma soprattutto attraverso l’istituzione di gruppi cittadini in collaborazione con le forze di polizia. Difficile non farsi venire in mente le ronde, tanto care alla vecchia Lega così come a Forza Nuova e Casapound, diffusesi non troppi anni fa nel Nord Italia e spesso mascherate da nomi meno aggressivi come “sit-in” o “passeggiate per la sicurezza” (ma non sempre: vedi le “trincee urbane” di Brescia e altre amene iniziative). Nel caso dell’attuale proposta di legge si adopererebbe la più pacifica espressione di “gruppi di controllo del vicinato”, già utilizzata varie volte dalla Lega, in particolare nella recente legge approvata dalla Regione Veneto e successivamente bocciata dalla Corte Costituzionale proprio a causa dell’eccessiva legittimazione, di fatto, di pratiche cittadine di stampo poliziesco. E, sotto sotto, proprio di questo si tratta, dato che i cittadini verranno incoraggiati a partecipare a pratiche di monitoraggio e segnalazione, probabilmente per mezzo di app messaggistiche come Whatsapp, dei crimini o sospetti crimini all’interno del proprio gruppo così come alle forze dell’ordine; pratiche che con amara ironia vengono associate dai promotori del piano a un rafforzamento della “solidarietà” tra i cittadini.

Ronda o non ronda?

Tutte le misure sono state approvate, e a nulla sono valsi i tentativi di emendamento avanzati dall’opposizione, che questa volta si è schierata piuttosto fermamente contro il disegno di legge. Il consigliere democratico Diego Sarno avrebbe infatti pesantemente criticato il piano per la sicurezza, giudicandolo troppo sbilanciato sul polo della repressione e della sorveglianza: secondo il consigliere il problema della sicurezza andrebbe affrontato a tutto tondo, collaborando con le realtà del territorio e, soprattutto, investendo le risorse a disposizione in una più accurata formazione degli agenti; a propria volta il consigliere di Liberi Uguali e Verdi Marco Grimaldi si sarebbe espresso negativamente contro “gli scenari di guerra” evocati dalla proposta del controllo del vicinato: sembra che non a tutti, per fortuna, suoni inoffensiva la proposta di formare gruppi di cittadini che si prendano in carico il ruolo di braccio della legge, seppur in totale collaborazione e subordinazione agli agenti della pubblica sicurezza (il coordinatore dei gruppi di controllo di vicinato dovrà essere necessariamente un membro delle forze dell’ordine: che consolazione!). In effetti risulta difficile non pensare alla facilità con cui potrebbero emergere derive informali e ben più problematiche di queste iniziative di controllo cittadino, cosa a cui si è purtroppo assistito durante gli anni delle ronde padane e delle passeggiate per la sicurezza dei quartieri ad opera di gruppi presi, evidentemente, da un eccessivo entusiasmo per l’idea di un ristabilimento dell’ordine “fai-da-te”.

La sicurezza come sorveglianza

Ciò che sarebbe opportuno chiedersi, a questo punto, è se la sicurezza di cui abbiamo bisogno sia quella che hanno in mente l’assessore Ricca e tanti altri come lui. Nelle parole del consigliere regionale, questo piano per la sicurezza sarebbe scaturito dal desiderio di un “concetto di sicurezza più concreto e vivo”: un’affermazione che ben si concilia con la generale retorica di una sicurezza visibile, espressa in forme di controllo diffuso, sorveglianza, eradicazione e repressione. Un’idea estremamente materiale, fisica, se non muscolare dell’ordine pubblico (spettacolare in fin dei conti, se si pensa al vivace corredo di accessori che compariranno sulle divise degli agenti), che vorrebbe semplicemente più risorse da impiegare nello scoraggiamento del crimine per preponderanza di forze schierate in campo, nella repressione senza appelli di ciò che è considerato ingiusto, nella fredda e sistematica punizione dei colpevoli, rei di rappresentare tutto ciò che minaccia la stabilità e la serenità di una società altrimenti morale e giusta. In questo contesto, rinforzare il numero e l’equipaggiamento di agenti, tra l’altro affiancandoli a gruppi di cittadini impauriti e vogliosi di ristabilire l’ordine e la giustizia, presuppone l’esistenza di una serie di nemici già individuati, assolutamente esterni a una comunità di onesti sempre più fragile e ristretta nella percezione collettiva. Questi ultimi saranno incoraggiati a essere più vigili e recettivi: avranno infatti l’ennesima occasione per una “conferma facile” del proprio essere buoni cittadini e buoni soggetti morali, semplicemente puntando il dito su chi non lo è, sentendo di aver fatto il proprio dovere, di aver reso il mondo un posto più “sicuro”, di partecipare attivamente al bene della propria comunità, denunciando prontamente chi non merita di entrarvi.

Quale solidarietà?

Si badi, non si vuole negare qui la desiderabilità di un legame solidale di collaborazione e reciproca protezione tra i membri di una comunità: il mutuo appoggio è da tempo considerato un fattore chiave dell’evoluzione, e raramente assistere a una manifestazione di solidarietà non muove un sentimento di speranza per il destino della specie umana. Ciò che si vuole mettere in discussione è l’appropriatezza del termine “solidarietà” per indicare pratiche che, di fatto, si basano sulla denuncia zelante e sulla pronta repressione di tutto ciò che intacca stabilità e armonia presunte originarie: come se la società, se non contenesse i soggetti deviati e malvagi generalmente denominati “criminali”, potesse essere quel luogo giusto, libero e funzionale che sogniamo. Questa è una pesante e pericolosa semplificazione: il crimine è un insieme eterogeneo di pratiche e motivazioni la cui definizione risulta spesso labile e incerta, e la Storia spesso ci insegna quanto sia facile varcare la soglia che divide gli onesti e innocenti cittadini dai fuorilegge. La solidarietà richiede comprensione e conoscenza reciproca, e non è assolutamente sovrapponibile alla legalità; dipende, invece, da quello sforzo di pensiero che porta a trovare soluzioni comuni a problemi complessi, ma anche dalla responsabilità individuale, oltre che dalla consapevolezza delle difficoltà e dei vantaggi della vita in comune. Le nostre società sono estremamente complesse, e non c’è dubbio che contengano una serie di pericoli per i singoli membri: ma siamo davvero sicuri che questi pericoli siano tali e tanti quanti comunemente si pensa, seguendo le proprie ristrette percezioni e le notizie riportate quotidianamente dalle nostre varie bolle mediatiche?

Un po’ di dati

In realtà i fatti, a cui solitamente i cultori dell’ordine sono così affezionati, raccontano una storia diversa. Questa storia parla di persone sempre più pericolose per se stesse e per chi sta loro intorno nel tentativo di proteggersi da un pericolo sempre più astratto, ma anche di pericoli più invisibili, che non si possono trovare nelle strade né filmare con le telecamere. Andando a dare un’occhiata ai rapporti Censis degli ultimi anni, infatti, si può notare come la frequenza di atti criminali che si potrebbero chiamare “tradizionali” – gli scippi, i furti, gli omicidi – sia andata in realtà diminuendo, e non di poco. Il comunicato del 4 dicembre 2020 parlerebbe infatti di un calo del 26,6% dei furti, del 21,1% delle rapine e del 16,8% degli omicidi nel periodo compreso tra il 1° agosto 2019 e il 31 luglio 2020, confermando un andamento di generalizzata diminuzione del crimine ormai osservato da qualche anno (anche se con un accelerazione inedita dovuta alle misure restrittive per fronteggiare la pandemia). Dall’altra parte, si riscontra un aumento nei reati informatici: i casi di truffe, frodi e altri reati digitali sarebbero cresciuti in maniera vertiginosa negli ultimi dieci anni. Nonostante questo, gli italiani continuano a non curarsi troppo della sicurezza informatica e a barricarsi sempre più in casa: porte blindate, sistemi d’allarme, telecamere, casseforti e il caro, vecchio, dispendioso “trucco” di lasciare la luce accesa. In più, la difesa personale: difficile dimenticare quegli orribili mesi in cui siamo stati costretti a decifrare i salviniani deliri merito. Eppure questi rispecchiavano le reali predisposizioni di un gran numero di persone: sono sempre di più le armi da fuoco possedute da privati cittadini, spesso in nuclei famigliari con figli (nel rapporto Censis si stima ce ne siano nelle case di 4,5 milioni di italiani). Inoltre, cresce il numero di chi pensa che accedere al possesso legale di un’arma sia ancora troppo difficile. La sensazione di incertezza e sfiducia pervade le persone e le porta al sospetto e alla paura, da sedare in vari modi: dal desiderio di un uomo forte al potere condiviso da quasi metà della popolazione, al crescente utilizzo di ansiolitici e sedativi (nel 2019 ne facevano uso 4,4 milioni di italiani e l’andamento è in costante crescita), allo sfogo dello stress per mezzo di insulti e litigi tra le mura domestiche – entro le quali si consumano anche tragedie ben più gravi, come stragi familiari, femminicidi e violenze – e in strada.

Soluzioni concrete per astratte paure

Ed ecco che, anche prendendo i dati con le dovute distanze, il “concetto di sicurezza più concreto e vivo” di Ricca si scontra con una realtà ben più volatile e stratificata: sembrerebbe che le persone si facciano sempre più del male da sole, per stress, paura o ignoranza di come proteggersi, e che in tutta risposta desiderino sforzi più energici da parte dello Stato, arrivando addirittura a prendersi in carico parte di questi sforzi, per combattere minacce esterne che, tutto sommato, si potrebbero ridimensionare e affrontare con maggiore lucidità. Tuttavia, la percezione di crescente insicurezza, soprattutto nelle aree metropolitane, non accenna a smorzarsi, alimentata com’è dai toni allarmistici della cronaca, dal sospetto e dalla sfiducia reciproca dei cittadini e dagli stessi politici, a cui fa comodo affidarsi semplicisticamente a capri espiatori per ottenere i facili consensi di un elettorato impaurito. Il nuovo piano per la sicurezza è esattamente ciò che desidera un cittadino che, sentendosi impotente e in balia del caos, spera in un intervento da parte di un’autorità dotata di forti poteri; l’esatto contrario di un approccio basato sulla collaborazione, sulla solidarietà e sulla prevenzione, termini che tuttavia sono stati usati a più riprese per descrivere il nuovo piano di sicurezza. Come è già stato scritto in questa sede, purtroppo un mondo in cui la comune convivenza non abbia bisogno di alcuna forma di controllo e monopolio della forza è ancora da venire; attualmente, questo monopolio è in mano allo Stato: a fronte delle risorse disponibili per l’applicazione della legge – un milione e 800mila euro – siamo davvero d’accordo che la stragrande maggioranza venga investita in tecnologie securitarie, invece che in una formazione più attenta e profonda degli agenti (alla formazione sono stati assegnati appena 100mila euro)? Sono molti i casi, anche recenti, di arbitrarietà e irregolarità nella condotta dei membri della pubblica sicurezza: in un contesto di maggior responsabilizzazione e potenza di azione delle forze dell’ordine, un programma di formazione che renda gli agenti più consapevoli sui confini dei propri compiti, più informati e preparati a gestire situazioni complesse eviterebbe forse pericolosi abusi e l’inasprirsi di un clima securitario già abbastanza pesante.

Lara Barbara