E’ morto un ragazzo

20 luglio 2001
Sono le sei passate del pomeriggio. Mi arriva una telefonata. E’ un mio amico: “E’ morto un ragazzo! Cazzo, hanno sparato. Guarda il Tg!

Mi gela il sangue. Accendo la mia piccola TV. Edizione straordinaria. Sono come ovattata. Guardo le immagini ma non riesco a credere che sia reale. Solo più tardi realizzerò che un carabiniere ha ucciso un ragazzo, un ragazzo più giovane di me. Da quel momento il mio telefonino (così li chiamavamo) squilla ininterrottamente. Ed è tutto un “Hai visto? Hai sentito? Vorrai mica andare domani? E’ pericolosissimo! La polizia vi vuole massacrare, hanno già preparato le bare.

Inizia così quella che sarà l’esperienza più importante della mia vita. Quella che mi ha permesso di capire da che parte stare. Decido di non farmi intimidire, di essere testimone, di capire guardando coi miei occhi. E armata di una canottiera azzurra con le margherite, i jeans e le trecce come acconciatura, all’alba del 21 luglio parto insieme a giovani, adulti, preti, laici, comunisti e anarchici direzione Genova. Il viaggio è surreale. Sul pullman si canta, si ride, si discute e si ritrovano vecchie conoscenze. Nel mio zainetto non c’è nemmeno il coltellino per sbucciare la frutta perché al Torino Social Forum durante l’ultima riunione si erano raccomandati di non portare nulla di “sospetto”. E poi arriviamo. E’ una giornata caldissima, in tutti i sensi. Appena scesi ci dirigiamo verso viale Kennedy ma con mia grande sorpresa un poliziotto in stile robocop mi saluta alzando un enorme e inguantato dito medio. Sono così stupita che mi volto pensando che sia uno scherzo ma da lì a poco capirò che da ridere c’è ben poco. Seconda sorpresa è vedere scendere da una via un gruppo di black block con la compiacenza della polizia che invece di fermarli permette loro di spezzare il corteo in due. Intanto mi arrivano messaggi poco rassicuranti. La polizia sta caricando a circa cinquanta metri da noi. Vicino a me osservo una donna, adulta, con una bella camicetta bianca, molto distinta. La noto perché mi ricorda mia madre. La rivedrò dopo un’ora completamente ricoperta di sangue, per colpa di una manganellata in testa. Per la prima volta nella mia vita ho paura. Ci compattiamo. Per proteggerci dai colpi della polizia ci stringiamo l’uno contro l’altro. Abbraccio una signora anziana rivestita di bandiere rosse che mi rincuora dicendomi che lei ha fatto la guerra. Gli elicotteri volano bassi e ci fotografano. Il rumore è assordante. I cellulari non funzionano più. E più avanziamo, lentamente, più il sangue è presente. Ci sono anche dei cani in braccio ai loro padroni. Terrorizzati. Improvvisamente perdi la tua identità, la tua storia, la tua dignità. Quello che pensavi essere un Paese democratico diventa una mostruosità. Io mi sono laureata da un anno, ho due gatti, vivo a Torino e lavoro in teatro. Perchè devo difendermi? Io sono una pacifista, faccio volontariato. Perché cercano di colpirmi? Ricordo la giornalista Giovanna Botteri che gridava alla polizia “perché li state caricando!!!Non stanno facendo nulla!!!” Ma loro non avevano orecchie, erano lì con l’intento di disperderci, di colpirci,  di raccontare all’opinione pubblica che eravamo noi i delinquenti. Di affossare la nostra voce. Perché noi eravamo lì per un motivo. Discutere sulle tematiche ambientali, sulla green economy, sul fallimento del sistema capitalistico e sulla possibilità di costruire un altro mondo migliore. Un’alternativa a quella che quel G8 proponeva. Dopo qualche ora di questo balletto infernale, con gli occhi gonfi dai lacrimogeni, con la difficoltà nel respirare, con il cuore impazzito io e il mio prezioso gruppo di amici decidemmo di rientrare. L’autista del pulman ci aveva chiesto puntualità. Qualcuno propose di fermarsi a dormire alla Diaz, altri in spiaggia. E sembrava una buona idea perché eravamo stravolti dalla stanchezza sia mentale che fisica. Ci sentivamo come dei pesci boccheggianti. Ma l’idea di tornare a casa, di raccontare gli avvenimenti ci ha graziato di quella che poi sarà una mattanza da repressione cilena. Il viaggio di ritorno avvenne nel più completo silenzio, interrotto solo dal pianto di qualcuno. Anche i preti erano feriti e ci guardavamo con occhi enormi alla ricerca di risposte.

L’unica nostra consolazione era di avere fatto il nostro dovere. Di essere convinti che all’indomani tutti ci avrebbero ascoltato e avrebbero arrestato quei poliziotti crudeli. Che li avrebbero espulsi dall’Arma. Che la famiglia Giuliani avrebbe potuto guardare in faccia gli assassini del loro giovane figlio. Che… che… che…

Stefania Rosso