Fuoco su Notre-Dame, ovvero l’aberrazione della mente

Prosegue il dibattito tra arte e vita scaturito attorno all’incendio della cattedrale di Notre-Dame

Un’eco dell’indignazione mediatica globale contro le donazioni per il restauro di Notre-Dame è apparso anche su questo giornale con due successivi interventi [“Notre Dam(n)ation” e “Conta di più l’arte o la vita?”] da cui traggo le citazioni che leggerete. Il motivo per tornare sull’argomento è che nonostante in Occidente sia divenuto comune il dividersi, trincerarsi e spararsi addosso senza ritegno su qualsiasi cosa, esiste una risposta al disagio che quei trinceramenti ha creato, e non è una risposta di piombo.

Riassumo le ragioni degli indignati (anche quelle apprese da altre fonti) non per stabilire una classifica di importanza, ma per aiutarmi a organizzare le parole:
1) La generosità andrebbe più proficuamente diretta a salvare vite anziché edifici;
2) i miliardari si son fatti pubblicità e dedotto le loro donazioni dall’imponibile, altre cause più meritevoli ma meno risonanti non hanno destato in loro altrettanta generosità;
3) in particolare quando questa generosità eccede il reale costo dell’edificio;
4) tanto più se l’edificio è un simbolo di potere e identità religiosa;
5) si fa sempre in tempo a ricostruire un edificio, la priorità va data alla vita;
6) il profluvio di donazioni ha dimostrato come gli uomini diano più importanza alle cose anziché alle persone.

A prima vista tutti questi punti possono apparire ineccepibili, ma solo se “non riusciamo a vedere proprio quello che abbiamo sotto gli occhi”. Andiamo con ordine.

1) La generosità è un moto dell’anima che ci induce a trascendere i nostri limiti fisici e il nostro interesse individuale e presente, è un afflato che commuove chi osserva, avvicinandolo alla possibilità di vibrare per simpatia. Ma risuona soltanto nell’animo di chi è già in sintonia, di chi ha il cuore in mano. Chi il cuore se lo tiene stretto e imprigionato proverà invece acrimonia, e neanche vedrà quanto sia di cattivo gusto denigrare chi dona. Neanche vedrà quanto la capacità di amare il frutto dell’opera altrui è una condizione favorevole ad abbracciare le cause sociali, incluse quelle dirette a salvare le vite. Neanche si è chiesto se chi ha donato per la cattedrale non abbia fatto altrettanto o anche di più per alleviare le miserie umane in varie parti del mondo, senza che questo cadesse sotto la luce dei riflettori. Non se lo è chiesto, forse perché avrebbe disturbato il giudizio preconfezionato che lo aiuta a sentirsi moralmente superiore, pertanto capace di discriminare e dileggiare anche chi fa del bene, compilando a proprio gusto una classifica di disgrazie e di priorità a cui gli altri dovrebbero attenersi per non incorrere nella sua disapprovazione.

2) La pubblicità ai miliardari la fa chi ne cita il nome, in primo luogo i mass media che il giorno dopo li hanno criticati per essersi fatti pubblicità. Inoltre pare che questi facoltosi donatori avessero già raggiunto il tetto massimo delle deduzioni fiscali concesse in Francia, ma gli indignati sembra si siano dimenticati di verificare la fondatezza delle loro allusioni.
Quanto alle altre cause meritevoli, coloro che hanno grande influenza nelle comunicazioni di massa sarebbero nelle migliori condizioni per renderle un po’ più risonanti di quanto siano oggi, e i critici potrebbero utilizzare la loro capacità dialettica per attrarre la generosità dei donatori sulle cause che più stanno loro a cuore. Denigrarli e alienarseli mi sembra non renda un gran servigio a tali cause, ma forse a loro interessa di più scavare trincee ideologiche piuttosto che tendersi la mano e unire gli sforzi per salvare quelle vite che pur dicono di voler priorizzare.

3) A tutt’oggi non è chiaro quale sarà il costo finale dell’opera di restauro e ricostruzione, le stime più alte raggiungono suppergiù la cifra sinora raccolta. Tuttavia i critici hanno già chiaro in mente quanto dovrebbe costare l’opera e hanno già deciso che si è raccolto troppo, osservando con commiserazione quanti hanno donato sulla spinta dell’emozione, con scarsa razionalità. Fra questi ci sono milioni di persone modeste, senza le quali la cifra oggetto di accusa (o invidia?) sarebbe ridotta alla metà. Senza contare che gli eventuali denari in eccesso troverebbero facile utilizzo, dal momento che i bisogni non mancano, non foss’altro che per le numerose altre cattedrali francesi di proprietà dello Stato e sofferenti di scarsa manutenzione. Eppure ai critici non passa per la mente che possano aver emesso un frettoloso giudizio spinti anch’essi dall’emotività, questa volta non per abbracciare e curare, ma per criticare e respingere.

4) Nelle parole dei critici, il fatto che la cattedrale sia un simbolo di potere e di identità religiosa ne fa un oggetto intrinsecamente meno meritevole di carità e attenzione. Encomiabile ragionamento, se solo costoro dismettessero altrettanto facilmente i loro sentimenti riguardo al proprio potere e la propria identità ideologica, cosa che i grandi comunicatori che dominano l’informazione e l’intrattenimento (ma anche i piccoli) non mostrano sovente di fare. Inoltre, i critici evidenziano come l’emozione sia stata meno forte dinanzi alle distruzioni operate dall’Isis in altre terre, proprio perché in quel caso le opere distrutte appartenevano ad altre religioni, che in tal modo sarebbero state discriminate. Vale a dire che quando la generosità e la commozione verso la propria cultura si fa grande è esagerata, ma se la cultura è altrui allora la non esagerata generosità e commozione diventano discriminazione. Emerge da tutti i punti: l’ipocrisia e le contraddizioni interne sono la cifra di questo modo di pensare che pervade il mainstream odierno generando reazioni dalle conseguenze imprevedibili. Ma questa è un’altra storia.
Tornando a noi, il punto principale è che la cattedrale non si limita affatto a rappresentare il potere o un’identità confessionale, al di là delle supposte e discutibili intenzioni di chi la commissionò. Chi critica le religioni ha ottime ragioni, ma cade forse in inganno nel ritenere che tutte le persone religiose esprimano una chiara e consapevole appartenenza e identificazione con una particolare e ben definita confessione. Per la maggiore parte della gente, semplicemente non è così. Possiamo convenire sul fatto che l’anelito spirituale troverebbe miglior sfogo se venisse convogliato su sentieri di liberazione anziché su tracciati dottrinari, ma è un fatto che quei tracciati non abbiano prodotto unicamente divisioni e conflitti (peraltro generati anche dalle dottrine ideologiche di tanti detrattori delle religioni), ma anche freno alle pulsioni più basse e occasione di elevazione per quanti vi si sentivano portati. Dico ciò non perché io sia religioso – non lo sono – ma per riconoscere quanto di buono esiste in ciò che è tanto imperfetto e in larga misura corrotto. E anche per non sottrarre un sostegno a chi ne ha bisogno senza al contempo sincerarmi di fornirgliene un altro migliore e meno aleatorio, qualcosa però che questi sia in grado di accogliere in libertà anziché con la forza dell’imposizione.
Non soltanto settari bigotti, che pure esistono e probabilmente hanno avuto un ruolo, ma anche una moltitudine di persone non necessariamente cattoliche e nemmeno cristiane ha incluso in sé un’opera che è frutto della spiritualità umana, pertanto di noi tutti, al punto da piangere come se sul rogo soffrisse un amico. Questo tipo di sentimento può essere fatto proprio, amplificato ed esteso nella nostra vita, oppure denigrato quando è rivolto verso qualcosa di estraneo alla nostra identità limitata, escludente e giudicante.

5) L’idea che la vita non avvenga anche nella dimensione della devozione, e pertanto anche nella costruzione e mantenimento di luoghi ad essa consacrati, è davvero curiosa. La mancanza di sintonia con la vita conduce a separare ciò che in realtà è uno, e una volta che la separazione è avvenuta, la classificazione e la discriminazione sono inevitabili. Se da sempre avessimo praticato con convinzione e coerenza la teoria secondo cui occorra prima occuparsi della vita di chi soffre prima di rivolgere la propria attenzione al mantenere o al produrre opere d’arte, di ogni opera oggi non resterebbe che polvere, esattamente come quelle distrutte dall’Isis e di cui gli autori di questa teoria lamentano la scomparsa e la scarsa commozione che ha generato. La contraddizione è talmente grande che soltanto una potente allucinazione ideologica riesce – temporaneamente – a nasconderla.

6) “[…] un tale generoso ammontare [ha] almeno confermato, apertamente e universalmente, senza l’ombra di dubbio: a confronto con alcune opere che gli esseri umani hanno creato, specie quelle che hanno un valore sacro, che hanno cioè come scopo ultimo la conferma del riconoscimento identitario religioso riguardo la salvezza dello spirito e l’immortalità dell’anima, l’esistenza dei corpi umani non ha alcun valore”.
Sull’equivalenza tra un luogo di devozione spirituale e una particolare identità religiosa ho già detto. Io sono esempio vivente che tale equivalenza non esiste se non nella mente di chi la evoca, e con me tantissime altre persone. Ma la cosa più grave è il porre una donazione molto partecipata a favore di un luogo di comune raccolta spirituale e riferimento collettivo anche storico e artistico come equivalente al non attribuire in paragone alcun valore all’esistenza dei corpi umani. Siccome la misura e la qualità delle donazioni e dell’impegno individuale che le persone tirate in causa hanno praticato durante la loro vita non è nota a chi le ha criticate, su cosa è basata questa infamante congettura? Forse sull’ostilità rivolta contro un edificio e contro chi ne usufruisce, in quanto simboli di qualcosa da fare oggetto di aggressione, forse perché visti come minaccia alla propria identità – questa sí – settaria, intrisa di autoritarismo autoreferenziale e di violenza verso tutti quelli che non appartengono alla propria tribù?
Spero di no, perché il materiale di cui è fatto un simile sentimento sarebbe molto simile a quello che ha condotto gli integralisti islamici a felicitarsi per il rogo della cattedrale.
La dimensione spirituale del soccorso a Notre-Dame viene qui posta in primo piano, laddove in altri momenti ne veniva criticata la sciocca materialità contrapposta alle vite neglette. Altri direbbero che il corpo è il tempio dello spirito, uno non esiste senza l’altro. Occorre essere molto distratti per vedere queste dimensioni non solo come separate, ma addirittura contrapposte e avverse una all’altra.
“Notre Dame affumicata fa sgorgare lacrime e aprire i cordoni della borsa più delle vittime umane delle catastrofi naturali, delle guerre o della povertà”. Questa affermazione è vera solo se limitiamo il nostro sguardo ai giorni immediatamente successivi all’incendio. Nel corso del tempo, la quantità di denaro donata alle vittime umane non è neanche comparabile con quella donata alla cattedrale. Riconosco, tuttavia, che non vi è consapevolezza nel pubblico generale di quante risorse si siano finora destinate ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo, per fare un esempio, come siano state impiegate, e se davvero tali Paesi necessitino in primo luogo di denaro anziché di qualcos’altro. Il punto è che tali questioni non vengono sollevate volentieri perché andrebbero a detrimento della pretesa che la teoria espressa dai critici rappresenti in effetti la realtà.
“E il preferire l’arte alla vita è appunto la nostra dannazione”. Si potrebbe arguire che l’intero creato altro non sia se non l’opera d’arte del Creatore – meglio ancora, il suo modo di essere – e la capacità di percepirlo non sia altro che l’effetto della grazia, o dell’illuminazione, a seconda della cultura di riferimento. La sub-creazione da parte dell’uomo è espressione stessa della sua umanità, nell’arte dà il meglio di sé. Una cosa non esiste senza l’altra. Dividere, separare, contrapporre, sono tutte cose contrarie alla vita.
Innumerevoli esseri umani hanno dato così tanto di sé per due lunghi secoli. C’è il loro sudore e la loro fatica, in quelle pietre. La loro devozione. Il loro anelito ad espandere la propria percezione di sé e del mondo. La loro vita. L’essenza della vita non ha tempo. Se si trattasse unicamente di un edificio, per quanto bello e antico, chiaramente non meriterebbe tanta emozione. Temo che i detrattori facciano fatica a comprendere che la commozione non era rivolta alle travi di legno, al tetto di piombo o alle pietre dei muri. Se così fosse stato, il loro sconcerto e il loro sdegno sarebbero persino ovvi.
Includere in noi il prossimo ci conduce a condividere le sue fatiche e il frutto a cui hanno portato, sia esso una cattedrale sonora o una cattedrale di pietra, anche se questo prossimo è morto da tempo. Il suo corpo è tornato alla terra, ma la sua umanità non è estinta. Includere questa umanità significa includere la vita in sé, al di là della materialità di quei corpi. Ciò che ci sopravvive non è l’arroganza dell’oggetto creato, ma l’afflato che ci ha condotti a crearlo e che ci induce a mantenere affinché altri dopo di noi possano parteciparvi. Questa è la vita che va preservata, che non è separata dall’arte. È sempre stata sotto i nostri occhi, ma occorre essere vivi per vederla.

Ora mi si dirà che io sono un’eccezione e che la gran parte di chi ha donato lo ha fatto per motivi triviali. Se questo è ciò che pensi, ti chiedo: hai tu il potere di leggere le intenzioni e i sentimenti di ciascuno dei donatori? Possiedi le statistiche sullo stato spirituale di ognuno di loro? Su cosa basi il tuo giudizio, dunque, se non su quanto tu stesso avresti fatto al posto loro?
E quand’anche il gesto superficiale e modaiolo avesse prevalso nei numeri su quanti hanno sentito un’urgenza più profonda, di quanto esattamente avrebbe prevalso? e dove tracci la linea per accogliere o rigettare l’espressione del dono a cui hai assistito? e su quale fondamento?
In ultima analisi, chi ha tanto aspramente e alacremente dileggiato un gesto di generosità ha forse in primo luogo espresso un suo proprio malessere che ha poco a che vedere con la commozione per Notre-Dame o con i patimenti dei diseredati, ma dice molto dell’amarezza con cui vive la propria vita, ed è di questo che io non mi sento di gioire.

Luca Contini