Il Covid-19 trova vita facile nei call center

È accaduto quanto era facile prevedere, martedì 17 marzo si è avuta la notizia della prima persona positiva al SARS-CoV-2 in Comdata Ivrea. La sede è stata subito evacuata e da allora è chiusa, ma troppo tardi sono state attivate le precauzioni per evitare i contagi e l’organizzazione del lavoro agile. E l’ultimo decreto del governo definisce i call center, tutti, essenziali.

E’ accaduto quanto era immaginabile accadesse, dopo il primo caso del 17 marzo, nei due giorni successivi si sono manifestati altri tre casi di positività fra i lavoratori della più grande realtà lavorativa dell’Eporediese che conta nella sede di Ivrea circa 1.000 dipendenti per lo più impiegati nei servizi di help desk e call center.
Era questione di tempo perché l’azienda si è mossa con ritardo nell’attuare le misure di sicurezza per contenere il contagio, anche considerato che nei call center gli operatori lavorano a stretto contatto fra loro, non possono usare le mascherine perché devono parlare al telefono, condividono computer, scrivanie, sedie.
Il call center è uno dei luoghi di lavoro più a rischio per la diffusione di un’epidemia che si trasmette e colpisce le vie respiratorie, il lavoratori sono assembrati e parlano continuamente.
Gli operatori hanno denunciato che fino a metà della settimana precedente lavoravano ancora praticamente gomito a gomito, con i team leader e i supervisor che giravano per le postazioni senza mascherine né guanti, e non vi erano misure stringenti per l’uso degli spazi comuni. Solo dopo il primo caso di infezione la sede è stata evacuata per avviare la sanitizzazione degli uffici, a quel punto erano obbligati a farlo. L’Asl ha richiesto i nomi delle persone che avevano più stretto contatto con i quattro dipendenti contagiati, si è arrivati a 250 persone, numero che dà il segno della potenzialità infettiva di questi luoghi di lavoro.
Non erano poche le voci che da tempo chiedevano la chiusura temporanea delle aziende perché venissero sanitizzati gli uffici e venissero riorganizzate le postazioni di lavoro per garantire le distanze di sicurezza (comunicato del PRC di Ivrea). A anche nel tardivo Protocollo Lavoro firmato dal Governo con le parti sociali del 14 marzo viene detto chiaramente che le attività produttive potevano continuare “solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione“. Invece in Comdata, ma purtroppo in tantissime altre aziende “ad alto rischio” contagio, si sono mossi troppo tardi, senza peraltro che alcuna pressione venisse fatta nei confronti dell’azienda da alcun soggetto coinvolto (comunicato Art. 1 Ivrea e Canavese).

Il lavoro agile è scattato tardi

Anche l’avvio dello smart working è stato tardivo. Per farsi trovare pronti all’emergenza andava programmato per tempo, fin dalle prime notizie di contagi in Italia.
Organizzare il lavoro da casa per una azienda di call center multi-commessa non è come fare una “deviazione di chiamata” come pensa che sia il senatore leghista Giglio Vigna stando a quel che leggiamo su un giornale locale «I programmi che usate sono on line, raggiungibili da qualsiasi pc, anche privato. La tecnologia della deviazione di chiamata esiste dagli anni Novanta. L’azienda si riconverta allo smart working», pare abbia dichiarato il senatore dimostrando di non sapere minimamente come funzioni un call center. I committenti di Comdata, come di tutte le aziende di servizi telefonici, hanno precise e stringenti regole di sicurezza da applicare alle postazioni e alla connessione alla rete degli operatori che lavorano per loro. Per organizzare il lavoro agile per gli operatori occorre quindi anche la disponibilità e collaborazione dei clienti e per ogni commessa si devono configurare diversamente i computer degli operatori. Per questi motivi sarebbe opportuno una decisa direttiva governativa che obblighi i committenti di queste aziende ad autorizzare e velocizzare il lavoro agile dei propri fornitori di servizi telefonici. Nell’incontro in videoconferenza del 20 marzo richiesto dai rappresentanti sindacali con il Sindaco di Ivrea e l’azienda, quest’ultima ha dichiarato che sta lavorando per attivare circa 700 postazioni remote su diverse attività (comunicato OOSS sull’incontro).

Cassa integrazione per tutte le sedi Comdata

L’attivazione dello smart working sarà inevitabilmente graduale e non arriverà a coprire tutto il personale, per diversi motivi. Chi non può lavorare da casa dovrà tornare in sede, ma lo potrà fare solo dopo che l’azienda avrà messo in atto tutte le dovute precauzioni di sicurezza per evitare il contagio fra i lavoratori. Per coprire i periodi di non lavoro l’azienda ha comunicato che avvierà la procedura per l’utilizzo in tutte le sedi in Italia del “Fondo di Integrazione Salariale costituito per la gestione dell’emergenza COVID-19“. La richiesta è nazionale perché anche altre sedi Comdata sono state chiuse per casi di contagio, come Marcianise (CE) e Palermo, mentre la sede di Rende (CS) è stata chiusa dopo un’ordinanza del Sindaco che riguarda tutte le aziende di call center. Preso atto di numerose segnalazioni che denunciavano che i dipendenti di aziende operanti nell’ambito comunale erano costretti ad operare in condizioni di assembramento, il Sindaco ha disposto la sospensione delle attività dei call center, ad eccezione di quelli “in grado di garantire il pieno rispetto dei protocolli di sicurezza anti-contagio e di sanificazione dei luoghi di lavoro”.

Call center servizio essenziale?

(Immagine con lic. CC-BY-NC-SA 3.0 IT)

Nell’ultimo decreto del 22 marzo sono state inserite fra i servizi essenziali, senza alcuna distinzione, le attività di Call Center, ignorando o non considerando che all’interno dei servizi telefonici vi sono attività certamente essenziali, come gli help desk per l’assistenza per problemi di collegamento telefonico, internet, utenze, numeri verdi di emergenza, il supporto agli utenti meno tecnologici per i pagamenti o altre attività online, ma altri servizi sono assolutamente non essenziali come quelli di outbound, il telemarketing, cioè le promozioni e vendite telefoniche, oppure i numeri verdi di aziende o associazione di ogni categoria (dai biscottifici alle squadre di calcio) dei quali possiamo senz’altro fare a meno per qualche tempo. “Una decisione del genere può essere determinata solo dalla scarsa conoscenza del mondo dei servizi di telecomunicazioni impropriamente denominato “call center”, denunciano i Cobas del lavoro privato in un comunicato, “la gestione attività telefoniche in uscita verso clienti potenziali e in diversi ambiti quali teleselling, il telemarketing, la phone collection e le indagini di mercato, non solo non sono essenziali ma addirittura perniciosi in un momento come questo dove occorre ridurre al minimo i contatti e concentrarsi sull’essenziale. Così come le informazioni su bollette telefoniche, dell’energia o la correzione di fatture per qualche metro cubo di gas riteniamo possano aspettare, vista la sospensione dei pagamenti” e quindi chiedono per questo settore di “censire e identificare rapidamente i servizi davvero essenziali, anche all’interno delle stesse lavorazioni e per tutte le altre attività” e per questi utilizzare quasi interamente strumenti per il telelavoro.
Senza entrare nello specifico, stessa denuncia arriva da Cgil, Cisl e Uil che nel loro comunicato emesso appena pubblicato il decreto e l’elenco delle attività considerate essenziali dichiarano “Il Dpcm e lo schema allegato firmato oggi 22 marzo dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Salute non tiene conto se non in modo molto parziale delle istanze e delle necessità che abbiamo posto all’attenzione dell’Esecutivo, prevedendo una serie molto consistente di attività industriali e commerciali aggiuntive rispetto allo schema iniziale presentato dal Governo, per gran parte delle quali riteniamo non sussistere la caratteristica di attività indispensabile o essenziale.” e per questo “invitano e sostengono le proprie categorie e le Rsu, appartenenti ai settori aggiunti nello schema del decreto che non rispondono alle caratteristiche di attività essenziali e, in ogni caso, in tutti quei luoghi di lavoro ove non ricorrano le condizioni di sicurezza definite nel Protocollo condiviso del 14 marzo 2020, a mettere in campo tutte le iniziative di lotta e di mobilitazione fino alla proclamazione dello sciopero.

Non siamo carne da macello

L’urlo di disperazione si fa più alto oggi perché si sperava veramente di poter vedere a casa, al sicuro, migliaia e migliaia di lavoratori impiegati in attività produttive e servizi non essenziali. Togliere dalla strada, dai mezzi di trasporto, dalle fabbriche e uffici migliaia di potenziali portatori di contagio, per loro, per le loro famiglie, per tutti noi. Per ora invece ha vinto confindustria, certo la crisi economica e sociale sarà alta dopo il fermo forzato di tante attività, ma dobbiamo arrivarci vivi per sperare di superarla.

Cadigia Perini