Il gesto più che il discorso

«Il gesto più che il discorso» nel tempo della postmemoria

Per la Festa della Liberazione al liceo Gramsci di Ivrea 2017

«Il gesto più che il discorso» nel tempo della postmemoria suggeriva David Bidussa nel suo interes-sante saggio del 2009 Dopo l’ultimo testimone. In esso l’autore invita a riflettere sul destino della memoria e su quello che rimarrà dopo che sia morto l’ultimo testimone. Perché nel tempo della postmemoria – che coincide con quello della postverità e del postdiritto – il discorso del testimone indiretto sarà sempre meno credibile. Più credibile parrebbe essere invece il gesto o l’esempio più che l’argomento, l’azione più che la parola. Già un testimone diretto come Primo Levi confessava l’intrasmissibilità dell’esperienza vissuta, figuriamoci allora quello indiretto. Meglio il gesto, quindi. Anche quello teatrale, quello grafico, artistico, musicale. Meglio la finzione, la finzionalizzazione per tentare di comunicare l’esperienza. L’importante è – per fare nostro l’ammonimento di Wiesel – che la finzione non venga banalizzata e non banalizzi il contenuto della narrazione.

Un simile gesto teatrale e rispettoso dell’esperienza vissuta dai partigiani – nel caso specifico quella della Repubblica dell’Ossola – è senza dubbio quello che Franco Acquaviva e il suo “Teatro delle Selve” ha compiuto giovedì 27 aprile al liceo Gramsci di Ivrea con la sua performance (un monologo di circa un’ora) Liberitutti. Attraverso un fitto gioco di “dialoghi” egli rievoca l’esperienza partigiana ossolana durata dal 9 settembre al 23 ottobre 1944. Questa esperienza deve essere intesa come un laboratorio di governo democratico nel periodo della repressione salotina, non solo perché alcuni di quelli che fecero parte della Giunta provvisoria di Governo (uno su tutti Umberto Terracini) sarà futuro presidente della Costituente, ma anche perché alcuni dei principi democratici che quella Giunta approvò passeranno direttamente nella Costituzione. In tal senso, facendo un parallelismo storico, si potrebbe dire che le Carte dei principi della Repubblica dell’Ossola sta alla Costituzione della Repubblica democratica italiana come la Carta del Carnaro sta al fascismo. E, di conseguenza, come D’Annunzio sta a Mussolini, così Ettore Tibaldi (presidente della Giunta ossolana: teneva i rapporti con il CLN) sta a Ferruccio Parri (primo capo del governo della Repubblica democratica Italiana). «Dobbiamo fare come la Repubblica romana», diceva Tibaldi. Allora, però, nel 1849, era la Francia del futuro Napoleone III a impedire quell’esperienza repubblicana; nel secondo dopoguerra, nel 1945, ci fu l’impero americano, il grande Alleato, il Big Brother, con il maccartismo e la dottrina Truman, a bloccare sul nascere il governo Parri. L’idea di Repubblica italiana parte dunque da Mazzini (1849), viene sperimentata un secolo dopo con la Repubblica dell’Ossola (1944), cioè durante la Resistenza partigiana, verrà scelta al referendum del 2 giugno del 1946 (anche dalle donne italiane) e infine verrà incarnata nella Costituzione nel 1948. A causa però dei giochi asfittici dei partiti e della partitocrazia mefitica (nel 1992 – anno cruciale per la politica e per lo Stato italiano – si parlerà di “seconda” Repubblica), ancora oggi quell’idea fa molta fatica a tradursi in realtà. Compito dell’Anpi, ha ribadito Mario Beiletti (Presidente dell’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese), come pure ha fatto in questo giorni a più riprese anche il Presidente dell’Anpi nazionale Carlo Smuraglia, è quello di stimolare l’impegno negli Italiani (specialmente nei giovani: ad essi si è rivolto con passione il rappresentante di Acmos Andrea Gaudino, citando gli esempi di Giaime Pintor e di Altiero Spinelli) a far sì che quell’idea repubblicana possa diventare realtà, tradursi in atteggiamento etico, in azione sociale e quindi in proposta politica.

Anche quello di Corrado Bianchetti, con la sua storia d’amore e morte a fumetti Non ti scor-dar di me, è stato un bel gesto: un gesto grafico che vale più di mille discorsi. Una storia vera al tempo della lotta partigiana contro il nazifascismo. Bianchetti ha raccontato, attraverso il disegno, la storia del prozio, Aldo Porta, un partigiano della Val Luserna (Valle Po e Val Pellice) fucilato a Ca-luso il 7 aprile 1944.
Pure la vicenda del partigiano Gianni Mineo (originario di Palermo) è del 1944. Una vicenda che Piero Canale (valente e giovane docente di storia) ha promesso di raccontare agli studenti del liceo Gramsci presso la sede dell’Anpi. Nel giugno 1944, come partigiano ad Arezzo, egli salvò dalla fucilazione 209 ostaggi e i loro familiari.
Tutti e tre gli eventi, luminosi a loro modo, rientrano nel 1944. Quest’ultimo, come si è detto, nel giugno, in Toscana. Ma nello stesso mese, nel Lazio, si assiste a un avvenimento tenebroso. Dopo il bombardamento anglo-americano su Cassino, il 15 marzo del ’44 – un bombardamento simile tra l’altro a quello del luglio 1943 sulla Sicilia (effettuato da italo-americani) – alle truppe alleate francesi (composte da magrebini, marocchini, i cosiddetti “goumiers”) venne data carta bianca in Ciociaria in caso di vittoria. Il risultato fu che 700 donne (e non solo) verranno violentate da quei “liberatori” dal nazifascismo. Bella liberazione, dunque. Anche questo prezzo i civili dovettero pa-gare per venire liberati dagli “alleati”. Una liberazione diversa, dunque, dalla libertà “fittizia” otte-nuta il 25 luglio. Ancora diversa da quella libertà “di scelta” dell’8 settembre. Ancora differente dalla liberazione “reale” del 25 aprile.

Un bel gesto musicale è stato anche quello compiuto al pianoforte da uno studente del liceo, Tommaso Vitali, che in apertura della festa ha voluto regalare ai suoi compagni le due bourrée della II Suite inglese di Johann Sebastian Bach.

Franco Di Giorgi