Il gioco di Pollyanna

RUBRICA CRONACHE ELEMENTARI

Quando avevo 8 o 9 anni e ancora non sapevo che avrei fatto la maestra, uno dei libri che mi colpì di più fu “Pollyanna”, di Eleanor H. Porter. Un romanzo scritto agli inizi del ‘900, in cui una bambina, orfana di entrambi i genitori, va a vivere a casa della rude zia Polly, che si occuperà di lei più per dovere, che per affetto.
Già la partenza non è meravigliosa, ma non basta, perché nel dipanarsi della trama, a Pollyanna ne accadono di tutti i colori. Eppure lei, cuor contento di natura, non si abbatte mai e, per aiutarsi, inventa il “Gioco della felicità”: riuscire a trovare qualcosa di positivo in ogni situazione, allenarsi a spostare lo sguardo, a cambiare prospettiva.

Ho pensato spesso al gioco di Pollyanna nel corso della mia vita e per quanto, a volte, l’incrollabile felicità e la tenace speranza di quella bambina mi siano sembrate forzate e mi abbiano infastidita, quel gioco è diventato una risorsa, una sorta di diffusore di positività, soprattutto ora, in tempi in cui questa parola, “positività”, ha perso il suo valore di benessere ed ottimismo.

Due settimane prima delle vacanze di Natale, la mia classe è stata posta, prima in “sospensione cautelare dalle attività didattiche in presenza” e poi, dopo il testing effettuato dall’Asl, in quarantena.

Tutti a casa. Tutti in DAD. Abbiamo lasciato a scuola la nostra aula addobbata con le stelle e le candele colorate alle finestre, le scatoline del calendario dell’Avvento aperte solo per metà, la canzone che volevamo cantare e registrare per i genitori, con le mascherine e le finestre aperte, sul ritmo della cup-song. Sarebbe stato Il nostro augurio di Natale in epoca Covid.

Avevo anche comprato 25 mascherine chirurgiche decorate con piccolissimi Babbi Natale. Ma niente. Non abbiamo fatto in tempo. Sospensione. Quarantena. Dad. E la prima lezione coi bambini, in collegamento su Classroom, l’abbiamo iniziata proprio così, col gioco di Pollyanna: “Diciamo qualcosa di bello che possiamo fare proprio oggi, proprio perchè siamo in DAD, collegati da casa”. E i bambini ne hanno trovate moltissime di cose belle. E anch’io.

Abbiamo potuto vedere i nostri sorrisi, i nostri visi, le espressioni di gioia o tristezza quando qualcuno parlava o leggeva il proprio testo ai compagni. Abbiamo potuto guardare gli alberi di Natale, in salotto o in cucina ed era una gara a dire “Posso farvi vedere questa decorazione? Posso mostrarvi il mio albero?’”.

Siamo entrati nel presepe di Paolo, che era quello che faceva il suo nonno e che ora allestisce lui, con la sua mamma. E in quello di Alessandro e di Giulia. E abbiamo ammirato la pallina con la foto del faccino di Luca da piccolo, creata alla materna, quando aveva quattro anni, accolta dalle grida di gioia di Marta e di altri, perché “Ce l’ho anch’io! Eccola! La vado a prendere…l’avevo fatta anch’io!”.

E ci siamo sorpresi davanti al calendario dell’Avvento di Anna e a quello di Samuele, con le caselline di cartone che contengono pensieri affettuosi ed azioni gentili da compiere e che il prossimo anno magari costruiremo anche noi, a scuola, se mamme e zie ci cederanno il copyright. Abbiamo sorriso di fronte a musetti di cani, conigli, gatti di casa, dinosauri di plastica, giraffe di legno, pupazzi di peluche, che si affacciavano per un attimo nelle telecamere per farsi conoscere e alcuni si piazzavano su libri e quaderni e non volevano più andarsene, e tutti ridevano perché era bello potersi vedere, e parlare, e raccontare e perché eravamo insieme, comunque, in un modo diverso, ma insieme.
Quando avevo 8 o 9 anni e ancora non sapevo che avrei fatto la maestra, uno dei libri che mi colpì di più fu “Pollyanna”. E il suo gioco mi torna ancora in mente, mentre oggi lo insegno ai miei alunni che hanno tutti 9 anni. Ma sono soprattutto loro ad insegnarlo a me.

Betta Dolcemiele – Maestra