Il melo. Un progetto di integrazione del passato che parla al presente

Nel prato antistante una vecchia casa del centro storico di Ivrea, si ergeva un melo. L’albero diede il nome a un progetto indirizzato a bambini  attuato da un gruppo di persone appartenenti alla Chiesa Valdese di Ivrea, al Gruppo comunitario Protestante di Ivrea e da universitari del movimento studendesco e non solo

Pubblichiamo con piacere la testimonianza di Graziella Mariani su un progetto di integrazione nato e realizzato nella nostra città nella seconda metà degli anni sessanta e che a distanza di quasi 50 anni parla molto al presente. Parla della necessità e giustizia dell’accoglienza attiva mirata alla crescita individuale, ma anche collettiva dei nuovi e delle nuove cittadine a partire dai più piccoli: figli degli emigrati del sud d’Italia ieri, figli del sud del mondo oggi.  Non siamo riusciti (per ora) a trovare foto del doposcuola Il melo, ma chi nella nostra redazione ha avuto la fortuna di frequentarlo, ricorda l’allegria dell’atmosfera, i nuovi giochi e modi di passare il tempo, un prato tutto per loro in pieno centro storico con un bel melo dal forte tronco quasi orizzontale sul quale i bambini si sedevano, un melo accogliente. Chi ha partecipato al progetto o frequentato Il Melo e vuole scrivere la sua esperienza, quel che ha lasciato e quanto da quella si potrebbe prendere per l’oggi, è benvenuto!

Il doposcuola Il Melo

Per inquadrare il momento storico e le ragioni di questa iniziativa dobbiamo collocare l’evento negli anni che vanno dal 1968 ai primi anni ’70. Molti avvenimenti caratterizzavano il periodo: la contestazione giovanile a tutti i livelli: nella scuola caratterizzata da una didattica che era ritenuta “funzionale all’ordine esistente di divisioni rigide di classe”, all’irruzione di migliaia di immigrati dal meridione d’Italia richiamati dalle fabbriche in piena espansione e quindi da studenti con serie difficoltà di inserimento, all’impostazione culturale della scuola stessa poco adatta a fronteggiare le nuove realtà sociali e lavorative che si stavano affermando. Anche le nostre chiese furono investite da una folata del vento della contestazione che metteva in discussione l’ecclesiologia che fino ad allora relegava la diaconia quasi esclusivamente all’interno delle chiese e dei loro rituali. Nascevano all’interno della chiesa cattolica i gruppi di base ispirati anche dalle fresche idee del Concilio ecumenico e dai libri di Don Milani.
Anche nelle chiese protestanti storiche un buon numero di giovani portava una critica ad una predicazione staticamente racchiusa tra le mura degli edifici ecclesiastici al fine di portare nella società la ventata di cambiamento che aleggiava in ogni ambito sociale e anche per portare a tutti e nei fatti la “buona novella” di una nuova giustizia nella prospettiva della venuta del Regno.
A Ivrea un buon numero di giovani studenti e lavoratori individuò l’ambito di un nuovo impegno nei bambini che abitavano le vecchie case del centro storico e nelle numerose caserme allora ancora esistenti perché figli di recenti immigrati che lavoravano all’Olivetti o alla Montefibre. La scelta non fu casuale: si basava su un’indagine tra le famiglie dalla quale emergeva un loro grande “spaesamento” nel trovarsi in una realtà del tutto diversa da quella delle loro origini da piccoli centri del meridione. A farne le spese erano anche i bambini che inseriti nelle scuole, a volte non ne capivano il liguaggio e a loro volta non erano capiti dagli insegnanti. L’indagine comprendeva anche contatti con le scuole dalle quali emergeva un grosso problema di preparazione degli insegnanti ad affrontare la nuova realtà.
Tutti questi fattori indirizzarono la scelta dell’impegno verso la creazione di un doposcuola che voleva essere alternativo ad una scuola ingessata e classista. Ci si preparava su testi di pedagogia innovativa e si discuteva moltissimo, ma questa era la caratteristica dei tempi. Tutto veramente era messo in discussione.
Vennero individuati i locali nel centro storico che consistevano in tre grandi stanzoni con un piccolo prato antistante nel quale si ergeva il famoso Melo.
Subito, in seguito all’inchiesta fatta e alle esigenze urgenti delle famiglie, i locali furono invasi da un buon gruppo di bambini provenienti in gran parte dalle case vicine in Via Marsala e Arduino. Erano case fatiscenti occupate da famiglie di recente immigrazione che più tardi avrebbero popolato i nuovi quartieri popolari eretti in periferia ma provvisti di tutti i servizi: scuole (dalle materne alle medie, centri polivalenti, negozi, linee di trasporto pubblico). La concezione urbanistica di “città satellite” e la tradizione olivettiana fece sì che si evitasse il sorgere di ghetti metropolitani come succedeva nelle grandi città industriali nelle quali il nascere di quartieri-dormitorio degradava la vita sociale dei lavoratori.
Il gruppo costituente si dava nel frattempo una disciplina ispirata dalle sue origini: studi biblici collettivi, discussione su ogni decisione, impegno finanziario con il quale reggere le esigenze didattiche del doposcuola e persino dare un contributo economico alla sottoscritta, invitata a dare un aiuto in tempo ed impegno più continuativo oltre a quello dei numerosi volontari che ruotavano nel doposcuola. L’occasione non si limitava a dare ai ragazzi un aiuto nello svolgimento dei compiti, ma anche trasmettere una nuova modalità dello stare insieme dandosi regole e limiti stabiliti man mano in modo assembleare. Inoltre si invitavano i ragazzi ad esperienze per loro del tutto nuove, come gite e conoscenza del territorio circostante e delle sue risorse.
Si riuscì a coinvolgere nelle attività anche le numerose strutture cittadine: il Centro gioco infantile, una palestra per avviare i ragazzi ad una vera educazione fisica, ecc. La città rispondeva favorevolmente quando conosceva le finalità dell’iniziativa. Molti ancora però erano i pregiudizi verso le famiglie di provenienza dei ragazzi soprattutto da parte di alcuni insegnanti che, non impegnandosi all’inserimento dei nuovi arrivati, li abbandonavano a se stessi non interrogandoli mai e non correggendo neppure i loro elaborati. Quando ci si accorse di queste situazioni si prese contatto con quegli insegnanti e le cose incominciarono a cambiare poiché questi presero coscienza che i ragazzi erano seguiti.
Ci si rivolse anche ad un centro di psicologia del Comune di Ivrea, per far valutare le capacità potenziali di quel gruppo di bambini e dimostrare ai loro insegnanti che dal punto di vista intellettivo rientravano tutti nella normalità e richiedevano quindi un doveroso impegno per un effettivo inserimento nella classe. Bisogna capire che ai tempi esistevano ancora le così dette “classi differenziali” dove venivano inseriti quelli che a torto o a ragione erano considerati soggetti non in grado si seguire i normali programmi scolastici. Lo scopo era quello di non far rientrare quei ragazzi intelligenti e vivaci in tali gruppi discriminanti.
In effetti l’esperienza servì molto sia ai ragazzi che frequentavano il doposcuola e del quale anche adesso dopo tanti anni, testimoniano un bellissimo ricordo, sia al gruppo che progettò questo intervento che ne ricavò un grande bagaglio di esperienza, discussione, inserimento nella città, messa in atto di una diaconia concreta ed efficace per coloro che poterono usufruirne.
Nessuno dei componenti il gruppo provenienti dalla Chiesa valdese di Ivrea ed alcuni della Comunità dei Fratelli, fece opera di proselitismo né con i ragazzi né con le famiglie, ma questo era lo spirito dei tempi, anche se oggi, ripensandoci, si potrebbe valutare meglio tale scelta perché le finalità che si era dato il gruppo non erano solo pratiche o sociali, ma ispirate da un concetto di Chiesa che si apre al territorio e ne raccoglie le istanze sociali sulla base di una Parola vivificante e fiduciosa nell’opera di Dio verso un Regno che verrà secondo le promesse, ma che ha bisogno anche di un vero impegno di fede ed azioni costruttive.

Graziella Mariani

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