«Il mio amico Giovanni era un mite, che non significa un remissivo! Al contrario»

Armando Michelizza ricorda Giovanni Avonto

Il mio amico Giovanni era un mite, che non significa un remissivo! Al contrario. Mite non vuol dire arrendevole, non vuol dire disposto a compromessi, addomesticabile. Per niente. Fin dai tempi dell’Azione Cattolica. Ricorderà qualche anno fa: “Per noi giovani della Azione Cattolica fu uno choc profondo la cacciata di Mario Rossi e la sua sostituzione con una presidenza più docile all’anticomunismo e all’integralismo di Luigi Gedda e di Papa Pacelli”
Per niente addomesticabile e la pagò anche al congresso della Cisl Regionale a Novara nel ’85 dove fu sconfitto, e molti di noi con lui, da coloro che avevano un’altra idea di sindacato. Mite vuol dire che non credi nella violenza, nemmeno quella verbale, per far avanzare (non trionfare) le tue idee. Non credi che la violenza sia utile, non produttiva. Credi ci sia una necessità di coerenza intima fra l’idea della comunità umana che vorresti aiutare a costruire e il modo per realizzarla insieme. E insieme si sta solo condividendo.
Giovanni era un mite perché aveva idee forti che davano forza e però chiedono di cercare continuamente alimento nello studio e nell’incontro con altri.
Giovanni aveva visto l’ingiustizia, lo sfruttamento, i diritti negati e non aveva girato lo sguardo. Lo aveva potuto fare anche grazie alla compagnia di Paola. Grazie Paola. Giovanni era più testardo che tenace, non mollava mai. Ricordo una sfiancante, per me, trattativa con la Montefibre nei primi anni ’80: i miti hanno una resistenza che sembra infinita; forse perché sono guidati solo da idealità e competenza, e l’orario di lavoro …“è quello  necessario per compiere l’incarico assegnato”. Giovanni mi è stato maestro e fratello maggiore in una bella stagione del sindacato italiano. Bella e difficile: insanguinata dal terrorismo che ci costringeva a difendere l’esistente e impediva di pensare a forme di partecipazione che, forse, si sarebbero potuto esplorare. Ma una stagione piena di speranze e percorsi di aperture verso “gli altri”.

Mi piace ricordare come eravamo “europei” e “internazionalisti” allora: Giovanni, con altri, organizzava i rapporti con i sindacati francesi della regione del Rhone Alpes e con quelli jugoslavi, invero per noi un po’ strani. E l’incontro clandestino dei nostri tre sindacati italiani con i tre spagnoli (UGT, Comisiones Obreras e Union Sindical Obrera) in una casa di ritiri spirituali del Canavese, con il dittatore Franco ancora vivo. O quando ci spedì a Bonn alla manifestazione dei metalmeccanici tedeschi per la settimana di 35 ore. E il sostegno a Solidarność e contro i regimi dittatoriali dell’America Latina.
E condividevamo un grande sogno: costruire un sindacato unitario. Abbiamo fallito. Dov’è che abbiamo sbagliato? Giovanni era anche un maestro di responsabilità: neanche un minuto a recriminare sul “destino cinico e baro”. Dov’è che abbiamo sbagliato? dove siamo stati insufficienti?
Forse per un sindacato unito, occorre che muoia l’esistente, o almeno si sciolga che è un po’ morire. Morire per rinascere; non tutti fummo disposti. Giovanni lo era.
No, Giovanni non era un moderato. I moderati lo sconfissero, erano i suoi e nostri avversari, non nemici, ma certamente pericolosi e dannosi, come si poté vedere in seguito.
Ho avuto la fortuna di qualche ora in più con Giovanni in questi ultimi mesi e ragionavamo sulla opportunità che il riconoscimento Unesco alla nostra città fosse colta anche come una occasione di valorizzazione delle esperienze di relazioni industriali, sindacali, che puntano alla crescita delle persone e delle comunità in armonia con una visione del lavoro e della conoscenza quali strumenti a ciò finalizzati.
Insomma a riprendere le intuizioni e realizzazioni di Adriano che sono di straordinaria attualità e presenti in diverse esperienze imprenditoriali.
Facciamole conoscere, facciamole venire a Ivrea in un seminario una volta all’anno, non è forse Ivrea che può essere la capitale dell’impresa responsabile socialmente, comunitariamente, del lavoro come strumento di cittadinanza piena, di crescita, di partecipazione!
Questi gli ultimi ragionamenti, progetti, speranze condivise con il mio amico Giovanni.
Mi piacerebbe trovare qualcuno che aiutasse a provarci.
Al mio amico Giovanni non riesco ad augurare di riposare in pace, se puoi, Giovanni, in pace prova a lavorare, studiare. A ispirarci ancora. E grazie Paola.

armando michelizza