Il suo nome era Moussa Balde

Aggredito a Ventimiglia e rinchiuso nel Cpr di Torino. Ragazzo ventitreenne della Guinea si impicca in isolamento. Proteste dentro e fuori dal Cpr.

Si è impiccato il 22 maggio nel Cpr (Centri permanenza per il rimpatrio) di Torino in corso Brunelleschi, annodando le lenzuola in modo da formare una corda. Il giovane ventitreenne era un migrante proveniente dalla Guinea ed era stato vittima di un pestaggio, avvenuto lo scorso 9 maggio a Ventimiglia ad opera di tre italiani, attualmente denunciati a piede libero. Per via di un presunto tentativo di furto del telefono, i tre lo avevano inseguito e picchiato selvaggiamente con bastoni e tubi di gomma. Come se non bastasse, dopo esser stato dimesso dall’ospedale, trovato privo dei documenti, è stato trasferito e rinchiuso nel Cpr dove non ha ricevuto nessun tipo di aiuto o assistenza psicologica: è anzi stato messo in isolamento a causa delle misure di contenimento del Covid19 nella zona cosiddetta “Ospedaletto”, una stanza isolata priva di ambienti comuni, senza la possibilità di sapere del proprio destino.

Il suo nome era Moussa Balde, e nei primi giorni quasi nessun giornale che abbia trattato la notizia ha riportato il suo nome. Evidentemente non era molto importante.

Nel mentre la Procura ha aperto un’inchiesta e in molti hanno iniziato a fare dichiarazioni e chiedere giustizia. Monica Gallo, garante per i detenuti del Comune di Torino e referente per il monitoraggio delle condizioni delle persone accolte nel Cpr di corso Brunelleschi, si sarebbe dovuta incontrare con lui il giorno dopo. Oltre a dirsi addolorata, sottolinea come il caso di Moussa Balde necessitasse della massima attenzione, sia da un punto di vista psicologico che giuridico, essendo lui stesso parte offesa, e di come avesse già segnalato il caso al garante nazionale Mauro Palma. Quest’ultimo si era già soffermato sulla zona Ospedaletto nell’ultimo rapporto sulle visite nei Cpr e si è espresso duramente sulla vicenda: “Una persona affidata alla responsabilità pubblica deve essere presa in carico e trattenuta nei modi che tengano conto della sua specifica situazione, dell’eventuale vulnerabilità e della sua fragilità. Questo non è avvenuto”.

Reazioni anche dal mondo religioso, con l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia che invita ad una presa di coscienza collettiva, e politico, con i comunicati di Nicola Fratoianni (SI), Maurizio Acerbo (Prc), che chiedono la chiusura dei Cpr, l’interrogazione alla ministra Lamorgese di Erasmo Palazzotto (Leu), e le critiche di Riccardo Magi (+Europa).                        

Probabilmente però le parole più forti su tutta questa vicenda provengono direttamente dall’avvocato di Moussa, Gianluca Vitale: “Voleva solo andare via, non accettava di essere rinchiuso là dentro senza aver fatto nulla

Già dal giorno successivo gli altri 107 migranti rinchiusi nel centro hanno iniziato una protesta, sostenuta da alcuni solidali all’esterno, per la morte del loro compagno. Alle 18 di ieri un presidio di solidarietà della rete No Cpr Torino con la presenza di Angelo d’Orsi, candidato sindaco per Sinistra in comune a Torino.

Nel mentre iniziano a moltiplicarsi le voci da dentro il Cpr che insinuano svolte ancora più cupe nella vicenda: voci di un altro pestaggio subito da Moussa all’interno della struttura, di un mancato supporto medico, che abbia urlato per una notte nell’ Ospedaletto mentre nessuno gli forniva aiuto.

Che, quando è stato portato lì, non gli sia stata nemmeno chiesta la sua versione dei fatti sull’aggressione, come lui stesso aveva riferito all’avvocato. Secondo Moussa il furto all’origine del pestaggio non sarebbe mai avvenuto e lui si sarebbe limitato a fare l’elemosina prima di essere assalito. Ma anche questo evidentemente non doveva essere molto importante.

Non doveva essere una persona molto importante questo Moussa. Ma era una persona, una delle tante persone non molto importanti che siamo e che vediamo tutti i giorni. Certo è facile vederla ora la persona , dalle parole degli amici e dalle foto con la maglietta di “Imperia antirazzista”, durante una manifestazione a Roma assieme al centro sociale ligure La talpa e l’orologio. Meno facilmente si riesce a scorgere la persona dietro i titoli dei giornali, dietro i vari “immigrato clandestino” e simili, epiteti sempre utili per allontanare da sé l’orrore e risciacquarsi la coscienza.

Esattamente un anno fa in questi giorni moriva George Floyd, un’altra persona non molto importante, ma che lo sarebbe diventata di lì a poco. L’omicidio immotivato di quest’ultimo da parte di un agente di polizia durante un controllo avrebbe scatenato un’ondata di proteste come non se ne vedevano da anni negli USA e avrebbe contribuito nel rivitalizzare il dibattito sul tema dell’abuso di potere e sul razzismo sistemico delle forze dell’ordine sia in patria che all’estero.

E dire che non serviva attraversare l’oceano; bastava guardare dietro casa per trovare questi fenomeni: non nella forma di un ginocchio sul collo, ma come strutture dove si viene rinchiusi anche per mesi senza aver fatto nulla, per il solo fatto di non possedere i documenti giusti. Posti dove le udienze di convalida e proroga dei trattenimenti, nei quali si decide il destino di una persona, durano circa 300 secondi l’una, con Torino che vanta tra i più alti tassi di conferma dei trattenimenti, il 90%. Strutture spesso e da più parti definite come moderni campi di concentramento.

Qualcuno potrebbe obbiettare che si tratta di una definizione eccessiva e sensazionalistica, e in parte avrebbe anche ragione. Vero è però che esistono nella Storia alcuni luoghi e fenomeni destinati a essere ricordati nel tempo, cose che forse causeranno stupore a chi verrà dopo di noi e per le quali verremo giudicati, sia nel nostro agire che nel nostro voltarci dalla parte opposta.

Lorenzo Zaccagnini