In attesa che la luce si rincontri con il buio

In attesa della riapertura dei cinema, quando la luce del proiettore tornerà a incontrarsi con il buio della sala, non rinunciamo ad ampliare la nostra cultura cinematografica. In questo periodo di isolamento e segregazione, sicuri che ormai abbiate dato fondo a quella lista di film che vi ripromettevate di vedere quando ne aveste avuto il tempo, vi veniamo in soccorso con questa rubrica settimanale di consigli cinematografici. Buio in sala e… buona visione!

Il petroliere (There Will be Blood)

Regia: Paul Thomas Anderson
Catalogo: Netflix
Paese: U.S.A.
Anno:2007

Liberamente tratto dal libro Petrolio! di Upton Sinclair, Il Petroliere è considerato a ragione uno dei miglior film del primo decennio del XXI secolo. Duro, sporco e disperato come il più classico dei romanzi americani, immerso nei panorami desertici e sconfinati degli Stati Uniti a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quest’opera vi trasporterà dentro un romanzo di Steinbeck o di McCarthy al punto da farvi sentire la polvere del deserto sotto i denti e farvi venire sete.
1898, Daniel Pleinview (interpretato in maniera magistrale da un Daniel Day Lewis al massimo della sua potenza), un minatore d’argento, scopre un giacimento di petrolio nella sua miniera ed in poco tempo guadagna abbastanza soldi da poter mettere in piedi una sua piccola compagnia di copre un giacimento di petrolio in una delle sue miniere. In poco tempo guadagna abbastanza soldi da poter mettere in piedi una sua piccola compagnia di estrazione. Durante i primi lavori tuttavia un suo dipendente rimane ucciso in un incidente, lasciando orfano il figlio neonato che sarà adottato e cresciuto da Daniel con il nome di H.W. Negli anni successivi vedremo il progressivo espandersi dell’attività di Daniel, lavoratore instancabile e affarista spietato, e all’incontro-scontro con colui che sarà la sua nemesi: Eli Sunday, un giovane pastore convinto di essere l’eletto di Dio, che manipola i suoi paesani attraverso l’ignoranza e la superstizione.
Tutta la storia si protrae come scontro dialettico tra un materialismo feroce figlio dell’industrializzazione e della modernità (Daniel) ed una spiritualità ormai corrotta e decaduta che affonda il suo potere nella tradizione (Eli) in cui il primo si afferma come nuova verità divorando il secondo. Ma oltre alle mille letture che si possono dare di quest’opera, essa è prima di tutto la storia di un uomo che rigetta man mano la propria umanità in favore della competizione spietata, una voglia di sopraffazione che supera persino l’importanza del profitto in quanto tale, qui relegato a mero trofeo simbolo della vittoria sull’altro.
Un film non a caso totalmente maschili (il ruolo delle donne è marginale se non inesistente) che parla di un tipo ben specifico di capitalismo, quello più feroce e selvaggio, che produce enormi ricchezze estraendole dal ventre della terra, che non concepisce l’altro se non come concorrente o sottoposto e si nutre della competizione costante. Un film che più di ogni altro riesce a rappresentare il sogno americano in tutta la sua violenza e alienazione.

Assassini nati (Natural Born Killers)

Regia: Oliver Stone
Catalogo: Amazon Prime
Paese: U.S.A.
Anno: 1994

Siamo nel 1994: Kurt Cobain si è appena ucciso a Seattle con un colpo alla testa, Berlusconi ha battuto il centro-sinistra in diretta tv davanti agli occhi di un impotente Nanni Moretti e Quentin Tarantino, alla tenera età di trentun anni, deve ancora diventare Quentin Tarantino. Ha già diretto Le iene è vero, ma in confronto a Oliver Stone non è ancora nessuno. Ed è proprio al regista di Platoon che Tarantino consegna una sceneggiatura dal titolo provvisorio, Thrill Killers, che parla di una coppia di serial killer e di una troupe televisiva che li insegue…
A conti fatti, è questa la trama di Natural Born Killers (un Bonnie e Clyde trasportato negli anni Novanta), anche se della sceneggiatura di Tarantino è rimasto ben poco: Oliver Stone l’ha adattata, oltre che cinematograficamente, anche alle sue esigenze e al suo stile. Centrale, nella visione di Stone, è il rapporto tra mass-media e violenza. E con “mass-media” non è da intendere esclusivamente la troupe del programma televisivo che a loro insaputa sta rendendo famosi i due killer, ma proprio l’ininterrotto flusso che caratterizza il palinsesto televisivo: dai telegiornali alle sit-com, dagli spot pubblicitari ai cartoni animati.
Al giorno d’oggi tutta, ma proprio tutta la televisione – sostiene Stone – è intrisa di violenza, ma allo stesso tempo non si limita ad assorbirla passivamente, bensì la produce e la diffonde, in una spirale infinita senza capo né coda. E la tesi non rimane circostanziale, ma emerge prepotentemente attraverso lo stile, scandito da un montaggio volutamente confusionario e frammentato: ed ecco che l’infanzia dei due killer ci viene mostrato come se fosse una sit-com, con tanto di risate in sottofondo, e che intere parti sono girate come fossero un cartone animato.
Violento, grottesco, dissacrante, Natural Born Killers si regge anche sull’interpretazione strepitosa di Juliette Lewis e Woody Harrelson, il cui padre fu davvero un assassino (quando si dice il ruolo di una vita!) e di un giovanissimo Robert Downey Jr. al limite dell’eccessivo. Tarantino pare averlo rinnegato, ma nello stesso anno avrebbe vinto l’oscar per Pulp Fiction. E la violenza era più o meno la stessa.

Il capitale umano

Regia: Paolo Virzì
Catalogo: Raiplay
Paese: Italia
Anno: 2013

Probabilmente l’opera più profonda e matura di Paolo Virzì, Il capitale umano è un giallo atipico: ambientato in un non specificato paese della Brianza, il film si apre con la morte di un ciclista investito da un SUV. Questo evento si ripercuoterà sulla vita di due famiglie, quella di Dino Ossola, piccolo borghese titolare di un’agenzia immobiliare, stolto ma affamato di soldi, e quella di Giovanni Bernaschi, magnate e speculatore finanziario della peggior specie, il cui figlio Massimiliano è fidanzato con la figlia si Ossola.
Il film presenta una struttura a capitoli ed ognuno di essi ci mostra un punto di vista diverso sugli eventi che, oltre a svelarci lentamente l’assassino, ci permette di gettare luce su una realtà corrotta dal denaro in cui tutti sono colpevoli, i mariti quanto le mogli, i genitori quanto i figli.
Grazie ad una serie di notevoli prove d’attore, Virzì realizza un quadro a tinte fortissime di un Nord Italia tanto ricco quanto squallido e di una società ormai resa a un tempo spietata e assopita dal denaro. I personaggi sfiorano il macchiettistico senza immergervisi, regalandoci invece un’interpretazione realistica al punto da farceli risultare visceralmente odiosi nei loro difetti e disperatamente umani nella loro solitudine.
L’ottima sceneggiatura e un sapiente uso della macchina da presa coronano il tutto dando vita a un film che, pur non risparmiandosi una certa dose di graffiante ironia, risulta molto diverso dai precedenti di Virzì, allontanandosi dalla commedia per puntare decisamente più verso il dramma.
Adattato da un romanzo di Stephen Amidon ambientato in Connecticut, alla sua uscita suscitò non poche polemiche da parte della comunità brianzola, che accusò il regista di dare un quadro non corrispondente alla realtà della gente del luogo, e da parte della critica giornalistica italiana, che non apprezzò la volutamente eccessiva caratterizzazione regionale dei personaggi, ma ottenne un notevole successo internazionale, vincendo poi nel 2014 sei Nastri d’Argento e sette David di Donatello.
Un giallo-thriller in cui la soluzione dell’omicidio passa in secondo piano rispetto alla riflessione, dove non è davvero importante chi è colpevole perché in fondo lo sono tutti, egualmente vittime e carnefici, complici volontari di una società dove la vita dell’individuo vale quanto i suoi soldi, la sua posizione, la sua influenza e le sue amicizie. In due parole, utilizzando una terminologia tipica dai periti assicurativi, il capitale umano.

A cura di Pietro Pedrazzoli e Lorenzo Zaccagnini