In nome della Legge

Le indagini su quattro agenti di polizia del commissariato Dora Vanchiglia di Torino e una necessaria riflessione sul ruolo delle forza dell’ordine

Chi è appassionato di polizieschi di matrice hollywoodiana sicuramente conoscerà il cliché del poliziotto fuori dagli schemi, che non segue le regole per amor di giustizia, finendo col mettersi spesso nei guai con superiori e colleghi, troppo impauriti o attenti al regolamento per approvare i suoi metodi poco ortodossi. Alla fine riuscirà sempre, nonostante le difficoltà, a catturare il cattivo di turno e ad assicurarlo alla giustizia, venendo riabilitato e anzi prendendosi la propria meritata rivincita. Se però questa figura idealtipica viene trasferita dalla finzione al reale, le cose cambiano parecchio.

Il 4 dicembre vengono posti sotto indagine e momentaneamente sospesi quattro agenti di Polizia del commissariato Dora Vanchiglia di Torino, tra i quali vi è anche la dirigente, il vice questore aggiunto Alice Rolando. Tra le accuse traffico di droga, sequestro di persona e corruzione.

Questo caso, almeno inizialmente, non sembra però essere simile al più ben noto caso dei Carabinieri di Piacenza, dove vi era un sistema proto mafioso perpetrato dagli stessi militari. Da come viene descritto dai giornali, assomiglia piuttosto al cliché hollywoodiano, un gruppo di poliziotti che infrange le regole per riuscire a fermare il traffico di droga nel quartiere, mentre il capo accondiscendente chiude un occhio in nome del bene superiore, che ben vale qualche infrazione al protocollo. Successive indagini tireranno fuori un dubbio tesoretto da 300.000 euro e diversi casi di droga sequestrata e successivamente scomparsa, gettando una luce ancora meno edificante sui fatti.

In particolare il principale indagato della vicenda parrebbe essere il sostituto commissario Roberto De Simone, nella cui casa è stato trovato il tesoretto dentro buste sottovuoto, e che sembra essere la mano effettiva delle irregolarità, almeno quelle più grosse. Tutto inizierebbe con una perquisizione domestica ad un piccolo spacciatore del posto, al quale vengono trovati 8 grammi di cocaina. Il fatto non viene però denunciato da De Simone, che anzi rinchiude lo spacciatore in una cella di sicurezza per un’ora per spaventarlo, quindi comincia a minacciarlo non solo di metterlo in galera, ma anche di far togliere alla compagna il figlio. Da spacciatore l’uomo diventa quindi quello che si definisce “agente provocatore”, un infiltrato insomma. Da qui partiranno una serie di operazioni costruite ad hoc per aumentare il numero di arresti, una tattica non particolarmente efficace per combattere il fenomeno ma che sulla carta permette di fare bella figura. Non solo: parrebbe infatti che l’agente premiasse l’informatore con regali, soldi e droga sequestrati, per ogni operazione portata a buon fine, spingendo l’informatore a istigare altri a commmettere reati da poter riportare, e che durante le operazioni alcune borse contenenti droga siano scomparse.

Nell’attesa che i fatti vengano chiariti in tribunale, non possiamo sottrarci a una serie di riflessioni che diventano di giorno in giorno più impellenti, sia qui che altrove. Il ruolo delle forze dell’ordine viene oggi messo in discussione in diversi posti del globo: dagli USA di George Floyd e del Defund the Police alle rivolte francesi contro la legge sulla sicurezza, dalle proteste contro la brutalità poliziesca in Nigeria alle violenze dei Carabineros in Cile, in tutto il mondo sembra fiorire un bisogno impellente di ripensare le forze dell’ordine. In tutto il mondo tranne in Italia ovviamente, dove continuiamo ad avallare la teoria delle “mele marce” quando diventa ogni giorno più palese che abbiamo un problema. Siamo del resto il paese del G8 di Genova 2001, definito la più grande violazione dei diritti umani in un paese democratico, dei Carabinieri “alla Gomorra” di Piacenza, dei Carabinieri di Aulla del 2017, meno noti ma simili come metodi, di Federico Aldovrandi e di Stefano Cucchi. Questi sono i casi più famosi (e stiamo parlando solo di ciò che concerne il post 2000), ma casi di abusi in divisa accadono ogni giorno, dentro e fuori da carceri, caserme e commissariati, passando sostanzialmente sotto silenzio. Pure la piccola e tranquilla Ivrea dovrebbe ricordarsi dei pestaggi avvenuti nel carcere di corso Vercelli, per i quali è stata chiesta l’archiviazione, respinta a causa della palese inconsistenza delle indagini svolte dallo stesso corpo di polizia penitenziaria.

Questo ci porta ad uno dei problemi principali riguardo i processi alle forze dell’ordine: anche quando vengono scoperti difficilmente pagheranno, almeno per intero, per ciò che hanno fatto. Processi lunghissimi, indagini viziate, gli stessi agenti che denunciano comportamenti anomali dei colleghi puniti dai superiori per aver sporcato il buon nome dell’Arma o del Corpo.

Il problema allora non sono solo le mele marce, il problema è sistemico.

Non è solo colpa della struttura delle forze dell’ordine in sé, parte del problema è la società che ci sta dietro: media e politica difficilmente criticano pubblicamente Polizia o Carabinieri, se non in casi estremamente gravi e palesi, un po’ per paura un po’ per tornaconto personale, ogni tanto anche per ideologia. Ma si sa che politica e media sono barche a vela che si spostano dove soffia il vento dell’opinione pubblica, e se c’è una cosa che si può dire con relativa sicurezza è che, barzellette a parte, la maggior parte degli italiani ama le forze dell’ordine, e anzi brama comportamenti sempre più borderline da parte di queste ultime. “Fanno solo il loro lavoro”, “se fosse rimasto a casa non gli sarebbe successo nulla”, “fosse per me li ammazzerei tutti i carcerati”. Frasi del genere sono all’ordine del giorno su qualsiasi social generalista, senza provocare particolare scandalo, alimentate dalla comoda certezza di non potersi mai trovare dall’altro lato. I dati del Censis più recenti riportano come quasi la metà degli italiani sia favorevole alla pena di morte: è così che sempre più si invoca una giustizia spietata e slegata da ogni limite, convinti che se non fosse per qualche piagnucolone sinistroide amico dei delinquenti i problemi sarebbero risolti in fretta con la mano pesante. Certo, tutto questo vale finché non arriva la multa per aver violato il coprifuoco o quando la patente viene ritirata per guida in stato di ebbrezza. Allora magicamente si diventa tutti anarchici e insofferenti alle regole, quando fino a poco prima si scriveva un bel post reazionario invocando torture e morte pure per i ladri di polli. Un atteggiamento figlio della perdita di spirito critico in favore delle soluzioni semplici, alimentato dalla narrazione mediatica, ma che a sua volta alimenta quest’ultima, un grazioso serpente che si auto fagocita. Sono gli stessi giornali che, pur di fare notizia, riportano per intero il nome dello spacciatore infiltrato, non curandosi nemmeno delle possibili ritorsioni che potrebbe subire. Tanto è uno spacciatore, di lui non importa a nessuno, e mettere un’informazione in più alimenta la curiosità morbosa e fa fare visualizzazioni sul sito. E siamo tutti contenti.

Purtroppo, un po’ per come è strutturata la società, un po’ per via della natura umana, un mondo dove tutti riescono a convivere senza alcuna forma di controllo non è ancora possibile. Ciò non dovrebbe servire però come scusa per giustificare sempre le forza dell’ordine, anche quando sono oggettivamente indifendibili, anzi proprio perché abbiamo questo bisogno vi è la necessità oggi più che mai di ripensare le strutture di controllo e di applicazione della forza da parte dello Stato. Anche le proposte più basilari sono state tuttavia sempre rigettate (si prenda ad esempio il codice identificativo sulla divisa per i poliziotti, presente nella maggior parte dei paesi europei), per non parlare di proposte più radicali come lo spostamento di parte dei fondi destinati alla Polizia verso un’implementazione del welfare nelle zone più povere e con maggiore tasso di microcriminalità, un tentativo di risolvere il problema e non il sintomo, o la questione dei Carabinieri, una forza militare che compie funzioni di Polizia, meccanismo quantomeno insolito per un paese democratico. Proposte del genere non trovano nemmeno spazio nel dibattito pubblico.

I fatti del commissariato Dora Vanchiglia finiranno in fretta nel dimenticatoio (non che alla notizia sia stato dato questo gran risalto mediatico) e anche se portati al centro del dibattito pubblico finirebbero col guadagnarsi più simpatie che condanne, di nuovo per l’archetipo del poliziotto hollywoodiano. Sarebbe utile invece fare un ragionamento sincero e decidere una volta per tutte se questo Stato di Diritto ci piaccia o meno, se la maggioranza non preferisca in cuor suo uno Stato di Polizia, pragmatico e autoritario. Certo poi bisognerebbe accettarne le conseguenze: un Paese democratico può mutare in uno reazionario abbastanza facilmente, il processo inverso potrebbe essere più difficile del previsto.

Lorenzo Zaccagnini