La grande invasione-evasione

La morte goccia a goccia, di Andrés Montero, e altro

Per l’undicesima volta, grazie all’iniziativa culturale che caratterizza Ivrea la Bella, all’inizio del mese di giugno, l’urbe eporediese si trasforma, uscendo dall’abituale e pacato torpore, per riscoprirsi viva e partecipe. A compiere il miracolo “La grande invasione”, questo festival della lettura che “letteralmente” calamita l’attenzione non solo dei locali ma anche di chi, provenendo dall’esterno, si avventura con entusiasmo in una doppia escursione tanto in campo turistico quanto libresco.
Si potrebbe dire, sollecitando la dualità degli opposti, che alla grande Invasione corrisponda una parimenti grande Evasione, intesa come piacevole abbandono del divano di casa per gustarsi le delizie culturali in offerta. Sono quattro giorni ricchi di incontri, conferenze, presentazioni di libri e di mostre, corsi di scrittura per grandi e piccoli, teatro di strada, sfilata di personaggi noti e meno noti, all’insegna di un calendario, senza risparmio di energie, che fa dell’abbondanza la sua formula vincente. Infatti gli eventi in programma coprono l’intera giornata, non solo impegnando lo spettatore, in una grande abbuffata culturale, ma addirittura consentendogli di scegliere tra un evento e l’altro a parità di orario. Si può ormai dire che questa manifestazione caratterizzi Ivrea conferendole un’ulteriore connotazione identitaria. Naturalmente, il salotto cittadino, così rianimato, spolvera le sue bellezze, apre i vecchi portoni, rivela inediti scorci architettonici, rilancia la fioritura dei dehors e diventa luogo e palcoscenico per una gradita e rinnovata socialità. Quest’anno, a rendere ancora più colorato lo scenario ospitante, facevano bella mostra lungo via Arduino e via Palestro, anche i vasi d’autore, le fioriere con i disegni in stile pop-art realizzati da Ugo Nespolo. A me piacciono proprio per l’effetto di contrasto che creano in rapporto agli storici edifici, mentre alcuni, invece, li percepiscono come elementi dissonanti. A proposito di decontestualizzazione, nel pienone del pubblico, non si poteva fare a meno di notare la presenza di una donna di colore, alta, sorridente, copricapo e camiciona sgargiante, che tentava di vendere i suoi ventagli, in questo ricordandoci come l’oasi festivaliera della cultura si intersechi con le esigenze di chi, prima di bearsi intellettualmente, deve sbarcare in qualche modo il lunario.
Ad ogni modo, la manifestazione, pur con qualche interferenza malevola del tempo a scroscio di pioggia, ha rinnovato il suo successo, anche attraverso qualche tutto esaurito che, per esempio, non mi ha consentito, insieme ad altri, di poter entrare nel cortile del museo Garda per gustarmi la presentazione del libro della moglie di Tiziano Terzani.

A consolazione, il giorno dopo mi sono goduto quella del libro: “La morte goccia a goccia” del giovane cileno Andrès Montero, uno degli innumerevoli e quotati protagonisti dell’evento. Ad attrarmi la fascinazione, neanche troppo inconscia, del titolo, un tema universale che, affrontato da uno scrittore così giovane come Montero, (ha 33 anni appena) non può non esercitare un particolare richiamo. Presentato da Andrea Pomella, Montero si trova in Italia per un giro di presentazioni, descrivendosi come un narratore di storie tanto attraverso l’arte della parola scritta quanto di quella orale e declamata. Il suo è un libro di racconti, una forma narrativa che in Italia deve sfidare il pregiudizio del mercato che preferisce puntare sulla narrazione unica del romanzo. Montero si compiace inizialmente di trovarsi, per la prima volta in vita sua, a presentare un libro dentro una chiesa (Santa Marta), luogo che meglio evoca il rapporto indissolubile tra la vita e la morte, una morte che oggi, in Cile, è soprattutto intesa come prodotto della violenza e quindi disconosciuta e rimossa insieme ai rituali che la concernono. Montero scrive anche per salvaguardare questi rituali. I racconti del libro sono centrati su sei personaggi che si intrecciano in un processo quasi di gemmazione, secondo un filo rosso che ne unisce in qualche modo le storie. Vita e morte sono estremi di una dualità che non si può sacrificare al dominio di un unico polo e cioè la vita, che non è tale se non accetta e contempla anche la morte. Analogamente, come contraltare al ritmo frenetico e rumoroso di una grande città come Santiago del Cile, dove Montero vive, vi è il bisogno di silenzio che l’autore cerca nella calma e nella quiete della campagna, luoghi dove la sua scrittura predilige formarsi. “Voglio usare il silenzio per esprimere la mia opinione, voglio portare il silenzio dentro la letteratura” dice…
Il tema del duale è molto forte in questo giovane autore che lo sta riproponendo anche in un nuovo romanzo dove ci sono due protagonisti gemelli, uno nei panni di un giramondo, l’altro in quelli di un eremita.
Un po’ provocatoriamente Andrea Pomella gli domanda se non è troppo giovane per fare lo scrittore e lui risponde che questa è la sua vita, che scrive da quando era un ragazzo, che come alternativa ha pensato di fare il calciatore, ma senza successo.
Un’altra interrogazione evidenzia come la morte goccia a goccia dia l’idea di un flusso permanente e senza epilogo. Montero risponde che questo è proprio lo spirito vivente del libro. La morte e la vita sono come le storie scritte o narrate e cioè un libro infinito.
L’ultima domanda riguarda la differenza tra lo scrivere per un adulto e scrivere per un ragazzo. Quello che voglio, risponde saggiamente Montero, è non annoiare i ragazzi perché se questo succede con un adulto questi può chiudere il libro e passare ad altro, ma se succede con un ragazzo, la cosa può compromettere, nel futuro, il suo desiderio di leggere.
Il bello di questi incontri è che si sentono anche citare teorie elaborate da scrittori famosi come la teoria dell’iceberg di Hemingway. In sostanza, questa teoria dice che un buon racconto è come un iceberg di cui si deve vedere solo la punta. Tutto il resto del lavoro, la fatica della penna, deve restare sotto la linea di galleggiamento. L’incontro si conclude nella scia di altre cose pronunciate in spagnolo, questa lingua familiare e fuggevole che ci accompagna all’uscita. Fuori da Santa Marta c’è tempo per altri appuntamenti, parole, libri, scoperte che si susseguono in una scia di meraviglie.

Pierangelo Scala