La memoria della Resistenza nella testimonianza di Adelmo Cervi

Con l’ANPI il 4 maggio a Ivrea

 

Trascinante e a tratti persino commovente la testimonianza che mercoledì sera (4 maggio) Adelmo Cervi, grazie all’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese e della Valle Elvo e Serra, ha recato nella sala gremita di Santa Marta. Adelmo è figlio di Aldo, uno dei sette fratelli Cervi uccisi dai fascisti il 28 dicembre 1943 presso il poligono di tiro di Reggio Emilia. Furono passati per le armi per la loro netta opposizione dapprima al fascismo di Stato e in seguito, dopo l’8 settembre, con le armi in pugno, ai repubblichini di Salò.
Dopo la proiezione di un documentario relativo alla numerosa famiglia Cervi e la lettura di alcune pagine del libro che Adelmo (assieme a Giovanni Zucca) ha scritto per consolidare e onorare la memoria dei suoi cari uccisi (Io che conosco il tuo cuore, Piemme 2014), il testimone nel suo lungo e appassionato intervento ha evidenziato soprattutto il valore della Costituzione, nata dalla Resistenza, il cui spirito in questi settant’anni, secondo lui, sarebbe stato non solo travisato, ma anche tradito, forse già da prima della sua stessa nascita, nel 1948. Si pensi solo all’amnistia Togliatti del giugno ’46, che consentì in qualche modo nel dicembre dello stesso anno la nascita del Movimento Sociale Italiano.25_aprile
Da qui il caloroso appello all’impegno e alla difesa dei valori democratici incarnati da quella Carta, specie in vista del referendum di ottobre sull’abolizione del senato. Un impegno – suggeriva nel suo accalorato intervento il testimone – che deve o dovrebbe avere il suo fondamento etico nella nostra forza di volontà. Giacché è proprio con l’indebolirsi e con il venir meno di questa forza di volontà – sosteneva Adelmo, rievocando in tal modo le ultime parole del giovane martire Giacomo Ulivi – che la Carta costituzionale, la Carta di tutti gli Italiani, ha iniziato ad essere trascurata e quindi con ciò stesso tradita.
E tradire la Costituzione vuol dire accettare supinamente il fatto che essa possa non essere rispettata, applicata e dunque attuata. Per buona parte, infatti, il dettato costituzionale ha finito nel tempo con l’assumere sempre più l’aspetto di un articolato fatto di principi metafisici, di idee platoniche, di norme ideali e proprio per questo però trascendenti la cruda realtà, la quale, nel suo contorto procedere (ne sa qualcosa il Platone della Politeía) sembra poterne fare anche a meno.
Quasi che procedessero parallelamente, su due binari separati. Eppure è del tutto evidente che la struttura dialettica di ogni singolo articolo, come pure di tutto quanto l’impianto generale della Costituzione, dal momento che propone sistematicamente la compresenza di due esigenze o condizioni antitetiche, fa affidamento alla nostra volontà, alla nostra buona volontà, affinché noi, come soggetto attivo, possiamo realizzare inderogabilmente e quindi assiduamente nella realtà sociale la sintesi, la conciliazione degli opposti che essa richiede.
In tal senso, proprio per marcare meglio il distacco dal ventennio fascista e per premunirci in futuro da ogni altro eventuale e sempre possibile ventennio, si può dire che la struttura “dialettica” della nostra Costituzione dipenda dal fatto che essa assume come suo proprio fondamento il principio “dialogico”. Che è ragion d’essere della solidarietà e della pace.

Franco Di Giorgi | 11/05/2016