“L’albero del vicino” di Hafsteinn Gunnar

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Rassegna Cineclub Ivrea

Ci sono film che vengono ritenuti banali perché poggiano su sceneggiature nitide e comprensibili e altri che, rifuggendo da ogni rischio di convenzionalità, puntano su storie artefatte e frastagliate solo per consentire allo spettatore una libera interpretazione attraverso i “finali aperti”. Questi ultimi conducono sovente a una polverizzazione delle opinioni mentre i film apparentemente banali, toccando temi sempre attuali, stimolano forme più approfondite di dibattito.
“L’albero del vicino” di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, recentemente in visione al cinema Boaro nell’ambito della rassegna del Cineclub Ivrea, ne è un esempio.
Film esemplare sui rapporti di vicinato che nemmeno la civilissima Islanda riesce a contenere sui binari del comportamento corretto e, per l’appunto, civile. Film scarno, essenziale, algido nei paesaggi e concentrato nel riquadro di due linde casette divise da una siepe. Da una parte una coppia con un cane, dall’altra una coppia con un gatto e, a far da collante, una serie di futili motivi, pretesto di una catena di frustrazioni che covano nell’ombra dell’animo umano, quello più in preda agli istinti. Di ombra si parla anche nel film, quella di un albero che sottrae il sole islandese, già tiepido e saltuario di per sé, alla veranda del vicino di casa.
Un albero dalla chioma troppo frondosa e una donna, Inga (Edda Björgvinsdóttir), in preda a un dolore profondo e insopportabile come quello della perdita di un figlio, forse suicidatosi.
L’animo incattivito e rancoroso di lei fa da fulcro all’intera vicenda, trovando sfogo nel risentimento verso i vicini e anche verso l’unico figlio rimastole, di nome Atli. Costui ha già i suoi guai, tormentato dalla moglie Agnes dopo che la stessa lo ha sorpreso a guardarsi un filmetto pornografico, girato in passato, con la sua ex. Uomini e donne, dunque, con i nervi a fior di pelle che gradualmente smarriscono il controllo travolti da un istinto primitivo e falsamente liberatorio che avvia un’escalation di dispetti reciproci, minacce e vendette tra le parti.
L’abilità del regista si gioca tutta nel dosaggio dei toni facendo scivolare i rapporti, da un inizio apparentemente farsesco, verso un crescendo a spirale di violenza. Nella civilissima Islanda, dunque, dove difficilmente si tollera chi pubblicamente alza la voce o parcheggia malamente l’auto, ciò che cova sotto le ceneri rivela il nostro vero volto. Concentrandosi sulle conseguenze rovinose che le beghe di vicinato generano, gli uomini si rivelano come barbari, il volto distorto e abbruttito, a dimostrazione di come la società, per quanto evoluta, non faccia l’uomo ma sia piuttosto l’uomo e la sua qualità esistenziale e umana a fare la società.
In Italia, dove i femminicidi non si contano, nonostante il femminismo e i diritti proclamati delle donne, la gelosia continua a produrre le sue vittime. Gelosia che, stando a una recente sentenza di legge, non è stata considerata come un futile motivo. Ammazzare la moglie, per ragioni di gelosia, non comporta dunque il rischio di pene con l’aggravante dei futili motivi. D’altronde non sono passati secoli da quando l’adulterio era considerato solo una colpa femminile e da quando il delitto passionale, contro la moglie fedifraga, veniva, se non giustificato, almeno penosamente minimizzato.
“L’albero del vicino”, il giardino islandese del vicinato rispettoso delle regole è, in realtà, un focolaio di violenze mal sopite e pronte ad esplodere tragicamente. Il film rivela la forza della nostra insensata capacità di distruzione, ci spinge a guardare nei meandri offuscati del nostro paesaggio interiore, dicendoci ciò che siamo in realtà.
I futili motivi siamo noi insieme a tutta la nostra inadeguatezza del vivere.

Pierangelo Scala