Lavoro povero? Chiamiamolo schiavismo.

Prima dell’introduzione della frammentazione dei contratti di lavoro e della precarietà come prassi, lavorare significava per la stragrande maggioranza dei lavoratori poter avere una vita almeno dignitosa. Da molti anni non è più così. E il lavoro povero abita anche molto vicino a noi.

Il fenomeno è così diffuso e purtroppo radicato che è stata creata una locuzione ad hoc “working poor” definito dal dizionario Treccani come “condizione di chi appartiene alla categoria dei lavoratori poveri, cioè coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza sul lavoro”.

Normalmente quando parliamo di povertà, pensiamo a persone senza reddito, senza un lavoro, ma negli ultimi anni non è più così. Vi sono lavoratori, soprattutto lavoratrici, assunti con contratti di poche ore settimanali e a pochi euro all’ora, che finiscono facilmente in condizione di povertà relativa (l’impossibilità di fruire di beni e servizi in rapporto al reddito pro capite medio del paese pur avendo il minimo necessario per la sopravvivenza) fino ad arrivare alla povertà assoluta quando non hanno altri redditi sui cui contare.

I contratti pirata

Questa emergenza sociale, acuita durante la pandemia, ha riportato all’ordine del giorno il dibattito sul salario minimo garantito per legge, che vede alcune resistenze anche da certa parte sindacale che discute sulla sua efficacia rispetto alla contrattazione collettiva. In realtà il proliferare dei contratti collettivi, passati dai 300 nel 2005 agli 854 nel 2020 (fonte CNEL), non ha garantito un reddito minimo per i lavoratori, anzi ha favorito il contrario, cioè ha imposto paghe orarie al di sotto della soglia accettabile poiché contrattate (parliamo soprattutto dei cosiddetti “contratti pirata” firmati da aziende e sigle sindacali, spesso costituite ad hoc, con minimi molto bassi).
Un minimo salariale, per legge o nei contratti collettivi, serve per ragioni di equità, ma anche di efficienza, perché quando il potere negoziale è troppo sbilanciato dalla parte dei datori di lavoro si creano situazioni di monopsonio. È un po’ come il monopolio che alza i prezzi e restringe i prodotti e i servizi offerti: il monopsonio abbassa i salari e riduce il numero dei lavoratori occupati.”, dichiara Andrea Granero, economista del lavoro dell’Ocse (non un bolscevico)

La situazione nell’Unione Europea

Nella UE il salario minimo è già stato introdotto in 21 Stati membri su 27. Esiste da 71 anni in Francia, da 23 anni in Gran Bretagna, da 6 in Germania.  I valori cambiano da paese in paese, e vengono attualizzati, in Germania ad esempio sono partiti da un salario minimo di 8,50 euro per arrivare nel 2020 a 9,35 euro. In Francia dal 1 gennaio 2020, il minimo salariale orario lordo ammonta a 10,15 euro.

L’Italia è fra i sei paesi (gli altri sono Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia) che non prevedono una paga oraria minima per legge, nonostante sia la nostra legge “maestra” praticamente a chiederlo: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” (art. 36 Costituzione italiana).  Eppure è pressante la necessità di intervenire essendo valutati attorno ai 4 milioni i lavoratori sottopagati e a rischio povertà nel nostro paese. E anche dove esistono minimi salariali contrattuali, non sempre vengono rispettati, si stima che l’11,7% dei lavoratori dipendenti riceva un salario inferiore ai minimi contrattuali.

Deve essere inserito PER LEGGE il salario minimo garantito.” – chiede con rabbia sui social un lavoratore del settore multiservizi che continua – In Germania all’inizio i sindacati non erano d’accordo perché temevano che il dispositivo sarebbe andato a discapito della contrattazione collettiva MA NON È ANDATA COSÌ. Da quando è stato fissato per legge questo paletto ne hanno beneficiato soprattutto le categorie con stipendi più bassi come i multiservizi e la ristorazione collettiva. Sarebbe un bel modo per il Sindacato intavolare una trattativa con il governo in tal senso.”, conclude. Mentre una collega manifesta la sua preoccupazione “la mia paura è che la nostra politica dà molto credito alle pari datoriali piuttosto che alle organizzazioni sindacali, ma certo se attuato come si deve, potrebbe essere una buona opportunità.

Partire dal salario minimo per cancellare la precarietà

Non basterà comunque la paga oraria garantita per legge a tutelare il reddito dei lavoratori e delle lavoratrici, si dovrà almeno intervenire sui contratti anomali (ad esempio di pochissime ore settimanali) da eliminare del tutto, e si dovrà cancellare la precarietà devastante (nel secondo trimestre 2021 il 35% dei contratti aveva durata inferiore 30 giorni, il 37% tra 2 e 6 mesi, e solo lo 0,6% oltre un anno) che a mano a mano è stata introdotta dalle riforme del lavoro, in ultimo dal Jobs Act, che hanno reso altamente vulnerabili i lavoratori, costretti a subire i ricatti degli imprenditori spregiudicati, dai più piccoli alle multinazionali.

Lo schiavismo indiretto nel settore pubblico, anche a casa nostra

Non si deve pensare che il working poor riguardi solo certi settori, come l’agricoltura, oppure l’impresa privata che sappiamo ha a cuore più il profitto e gli azionisti che i lavoratori, il fatto grave è che molti poor workes lavorano per enti pubblici attraverso appalti. I comuni e tutti gli enti pubblici, dovrebbero inserire delle clausole nei bandi gara a salvaguardia dei lavoratori, invece spesso sono proprio i bandi pubblici a portare a condizioni inacettabili, ad esempio con la formula del “massimo ribasso” o con il taglio delle ore a parità di servizio.

Recente la denuncia della Filcams-Cgil sull’appalto all’Agenzie delle Entrate: “L’ennesimo taglio indiscriminato avviene questa volta durante il cambio appalto per l’affidamento dei servizi di pulizia e igiene ambientale delle sedi degli uffici delle Agenzie delle Entrate dove le aziende aggiudicatrici hanno predisposto tagli di oltre il 30% degli orari di lavoro individuale, mentre le prestazioni ed i servizi nel loro complesso rimangono invariati o addirittura in alcune situazioni potrebbero crescere. Piemonte (la regione più colpita, taglio orario del 35%), Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Liguria, Toscana, Lazio e Umbria, Puglia e Molise sono queste le Regioni interessate e centinaia di lavoratori coinvolti, per la maggior parte part time, che hanno visto diminuire il loro monte ore e di conseguenza la retribuzione.

Stessa sorte l’hanno vissuta (la vivono) lavoratrici e lavoratori dell’appalto pulizie nelle sedi Inps in Piemonte, già commessa Manital, poi passata di bando in bando altre aziende/cooperative.  Come abbiamo denunciato in un articolo del 2020 “Bandi al ribasso, banditi al rialzo”, con il cambio di appalto il taglio medio dell’orario (già part time) è stato del 40%. E anche chi era già sotto il minimo contrattuale orario di 14 ore ha avuto ugualmente un taglio passando da 12,5 a 7,5.

Ma arrivando ancor più vicini a noi, non si può non citare l’appalto del Comune di Ivrea per i servizi cimiteriali, con lavoratori assunti a tempo determinato, lasciati a casa senza una parola, part time (tanto poi le esigenze di servizio si colmano con gli straordinari che diventano ordinari, possibilmente non pagati ma fatti recuperare in tempi di scarsa attività) e con retribuzione oraria attorno ai 4 euro.

Di fronte ad enti pubblici nazionali e locali che fanno lavorare nei propri uffici e sedi persone a queste condizioni si può a buon ragione parlare di schiavismo di Stato, quello Stato che dovrebbe avere nella Costituzione repubblicana il suo faro.

Cadigia Perini