Capodanno e pioppeti

Le figure del piacere, di Paco Domene
Figure in un presepio, stessi luoghi, stessa ora: Capodanno 2017, Castelldefels (Spagna), 31.12.17, ore 18.30

Ed eccoci qui, passato un altro anno, stessi luoghi, stessa ora, a ripercorrere la stessa strada ripercorsa da anni ogni capodanno, come se di una cerimonia rituale scaramantica e augurale si tratasse. Oggi a quest’ora l’aria è tiepida, la luna piena risplende in mezzo al cielo, a metà tra l’orizzonte luminoso della città e lo zenit ancora senza stelle. A sudest, sopra la grande conurbazione metropolitana di Barcellona la luce elettrica parte dal basso e si congiunge con quella fulgente e solare della luna: polvere brillante e lattiginosa che diventa puro chiarore verso l’alto; a nordovest, dove il mare che lambisce le coste di Sitges si scontra con la scoscesa montagna del Garraf la luce è puro buio: una nuvola asciutta e nera copre senza scampo gli ultimi bagliori rosati del tramonto.
Ogni capodanno faccio questa passeggiata fino al mare lungo l’ampio viale che, superando la ferrovia e le autostrade, costeggia il grande canale olimpico ed arriva alle pinete e al palmeto che precedono le sabbie dunose della spiaggia. Ogni anno parto con la mente sgombra, senza alcun progetto mentale, pronto a niente: sentirò, quello sì, la terra sotto i piedi e il tepore o il freddo sul viso, percepirò le variazioni dell’aria o della luce, annuserò, istintivo, i variegati odori della città e della natura, ascolterò il frastuono o i rumori che mi giungano. Ogni anno, lo so, la realtà di quest’ora e di questo luogo, come succede con la realtà presente in ogni luogo e ogni istante, darà forma e contenuto alla passeggiata: con imprevista sintassi dispiegherà i suoi segni e le sue figure. Poi toccherà a me, tocca sempre a noi, se così vogliamo, dare senso alle manifestazioni della realtà.
All’inizio della passeggiata, ancora in città, la porta eccezionalmente aperta di una casa a schiera mi fa vedere una sala da pranzo: il tavolo è stato allungato per ospitare molte persone; le sedie vicine tra di loro sono variegate; calici, piatti, tovaglie, addobbi, tutto annuncia l’imminente grande cenone familiare e tra amici. Lungo il percorso sparute figure rese anonime dalla lontananza e dalla fretta incrociano le strade. In una panchina di fronte alla strada che precede il laghetto delle papere, sotto un albero, nel buio, si staglia una figura: una giovane mamma sola, la carrozzina accanto a sè, allatta al petto un bambino. Non c’è intorno anima viva. Più in là, nel sottopassaggio del collegamento con la prima autostrada, un ragazzino agile e spigliato sfreccia sul suo skateboard. Ancora più in là, già sul marciapiede che costeggia il canale, una famigliola, provabilmente padre, madre e due ragazze adolescenti, si guardano intorno; sono sicuramente turisti e in questa zona sono frequenti: una fermata del bus procedente di Barcellona li lascia, è fine giornata, vicini agli alberghi dell’area. Poi, sulla salita del sovvrapasso della seconda autostrada, un uomo anziano cammina con difficoltà: è solo ed i suoi passi incerti e traballanti sembrano mostrare una grave malatia. Più in là, nei giardineti della rotonda, nella penombra, una anziana e quello che sembra il suo maturo figlio, sostano: lei, seduta, chiaramente si riposa; lui, in piedi, aspetta paziente e spaesato. Non c’è nessun altro intorno. Poi, ecco il lungomare illuminato a giorno e, più in là, la spiaggia lontana e oscura. Arrivo fino all’acqua. La notte è serena. Le onde respirano tranquille e senza affanno.
Mentre ascolto l’acqua mi viene in mente l’immagine di uno di quei presepi natalizi che ancora si fanno nelle case, per strada, nelle chiese. Ma il presepe che mi viene in mente non ha il bambino, nè l’asinello, nè la vergine, nè il sangiuseppe, nè gli angeli, e neppure pecore, musicanti, pastori, popolani… Simili ai protagonisti in 3-D di un video-game, questo presepe tecnopop fatto di rotonde, strade, ponti e pinete, ha come figure, iperrealisticamente modellate e colorate, diseminate qua e là, bloccate nella loro rigidità di resina o di terracotta, l’anziano solo, forse con l’alzheimer, la ragazza che allatta, sotto l’albero al buio, il suo bambino, il ragazzino bloccato sullo skate nel momento di massima forza, l’anziana stanca con il figlio annoiato e paziente, la famigliola straniera…
Nel presepe che mi viene in mente c’è, ovviamente, anche la casa che ho visto all’inizio del percorso con la tavola apparecchiata per il grande cenone. Ma forse questo presepe, proprio questo, è anche proprio nel salone della casa con la tavola apparecchiata per il grande cenone. Con le sue figure. Il nipotino forse allora chiede al nonno: “Nonno, cos’è quell’uomo morto per terra? ” E il nonno si accorge che la figura distesa non è un uomo morto: è l’anziano con l’alzheimer che un altro nipote più giovane ha fatto cadere, tanto sono di resina, forse di terracotta, giocando. O forse sì, forse è l’anziano che senza familia e senza badanti è uscito di casa e si è perso, e davvero è morto tra i pini e nessuno lo sa. La tv parla spesso di casi simili. Un altro ragazzino prende la figura dell’anziana madre con il figlio annoiato e, seduta e stanca com’è, la sposta all’altro estremo del presepe dimenticandosi del figlio, o forse si mette in tasca il figlio, così che la madre rimane per sempre abbandonata senza un misero aiuto che lenisca la sua solitudine. Anche di questo parlano spesso i giornali e nessuno fa niente. Forse la mamma del ragazzino, passato il Natale, trova la figura del figlio dell’anziana nelle tasche dei pantaloni del bambino e lo mette nella scatola delle figure, chissà se vicino o molto lontano dall’anziana. Anche la giovane che allatta viene strappazzata, indifesa com’è, spostata qua e là dai bambini, ma senza separarla dalla carrozzina e dal bambino. Per fortuna il modellatore ha fatto un gruppo inscindibile e solidale: il corpicino del bambino è un tuttuno con il grembo della madre. Ma potrebbe anche succedere che cadesse dalle mani di uno dei bambini e si rompesse, e ogni pezzo, carrozzina, panchina madre e bimbo, finissero chissà dove. Con il ragazzo con lo skate e le ragazze straniere vogliono giocare tutti: così che il nonno li mette al riparo dagli scalmanati più piccoli, e ai più grandi vieta perfino di toccarli. I bambini per il momento ubbidiscono… E della coppia straniera, i genitori delle ragazze, che ne facciamo? I bambini non sembrano interessati. Meglio.

Paesaggio, cultura, economia: I pioppeti del Canavese tra Strambino e Mercenasco; Ivrea (To), luglio-agosto 2017

Adesso, in pieno inverno, gli alberi sono spogli e la terra della pianura del Canavese è ghiacciata; non sembrerebbe il caso, quindi, di descriverli ma invece vorrei farlo: descrivere l’insolito e ciclico paesaggio che costituiscono i pioppeti del Canavese e la loro terra in estate. E’ possibile godere di questo paesaggio a piedi o in bicicletta, ma soprattutto dal treno: andando da Ivrea verso Torino, guardando a destra dal finestrino, tra i paesi di Strambino e Mercenasco, si percepiscono strutture arboree, potremmo dire, di una bellezza rara e straordinaria.
E’ un paesaggio poco riconosciuto e ancor meno compreso. Quando ne parlo con enfasi, anche a persone del luogo, spesso mi dicono: “ma quale?”, “dove?”. Neanche la mia spiegazione serve molto ad alimentare il concetto. Eppure questo paesaggio è quasi un paradigma, un esempio accademico di cosa sia un’archittettura dell’ambiente, di come i volumi, le forme, gli spazi e la loro organizzazione siano in grado di costituire elementi culturali (tali sono i paesaggi), leggibili, con un loro linguaggio e una sintassi propria, capaci di esprimere la loro origine, la propria dimensione naturale ed umana, la struttura economica e culturale che li sorregge.
Nella placida pianura del Canavese bagnata dalla Dora, e oltre, quando il Po si estende verso Casale Monferrato passando da Chivasso, il pioppo è l’albero. Le masse di pioppeti nelle golene dei fiumi o nelle aree irrigabili formano parte fondamentale del paesaggio e quindi dell’economia e della cultura dei luoghi. L’importanza della pioppicoltura nell’economia del Piemonte ha generato grande attenzione nella creazione dei disciplinari, nell’identificazione dei cloni efficienti, nella valutazione dell’impatto ambientale e della qualità biologica rispetto, ad esempio, ad uno dei suoi concorrenti naturali, il mais. Anche se ha una produzione in lenta diminuzione, il pioppo è tuttora, e dovrebbe rimanere, una risorsa di grande valore nel contesto di uno sviluppo sostenibile.
In Canavese, e in concreto nella ristretta area tra Ivrea e Caluso, questa importante risorsa economica e culturale si mostra in una delle sue forme più curiose. Il sistema fondiario di questa zona è costituito da appezzamenti medio-piccoli gestiti da agricoltori, di dimensione, diciamo, artigianale piuttosto che industriale.Ciò assegna forte potere decisionale ai proprietari su cosa coltivare, per quanto tempo e come, nonchè su quale grado di promiscuità assegnare alle loro coltivazioni. Il pioppo è ad oggi una delle risorse da loro più sfruttate. Pioppeti, quindi, con diverso grado di sviluppo, ampiezza e forma, di diverse età, fino a dieci anni (la loro maturità), convivono in uno spazio ristretto conteso di poco, in estate, dal mais già molto alto e da alcune piante da foraggio a basso fusto. In alcuni casi il coltivatore semina anche mais negli spazi vuoti tra i pioppi più giovani. In particolare, tra Strambino e Mercenasco questo sistema di coltivazione offre un’immagine di straordinaria originalità. I pioppi si distribuiscono in masse rettangolari, forme parallelepipediche compatte e di diversa dimensione ed altezza. Le forme a parallelepipedo delle masse del mais dialogano con le masse variegate dei pioppi. Nei pioppeti giovani il parallelepipedo di mais serve da base a quello dei pioppi. I rari spazi senza mais nè pioppi sono occupati da parallelepipedi molto bassi di piante da foraggio. L’incidenza della luce in uno spazio ristretto e su delle masse di diversi volumi e colori, crea un cromatismo fatto di verdi in tutte le loro gradazioni e trasparenze. Un paesaggio rigorosamente geometrico, fatto di geometrie vegetali, spaesante e teatrale, artificioso e sofisticato, che racconta, come un cantastorie, la sua storia naturale ed umana. Un vero paesaggio nel quale i volumi, le forme, gli spazi e la loro organizzazione sono in grado di costituire un elemento culturale leggibile, con un suo linguaggio e una sintassi propria, capace di esprimere la sua origine, la propria dimensione naturale ed umana, la struttura economica e culturale che lo sorregge. Un paesaggio, per quanto intenso, effimero e fragile, del quale avere coscienza, da vedere, percepire e comprendere.
Mio padre è stato per molto tempo un grossista di legname: comprava e sfruttava boschi di pino e di pioppo, ed alberi di noce, il cui legname vendeva a cantieri navali o a fabbriche di casse per la frutta. Portava noi figli, spesso, anche per aiutarlo, in montagna o nei boschi di pioppo di pianura. Imparai da ragazzo a vedere e percepire la perfezione naturale degli alberi, la loro valenza in quanto paesaggio e quindi il loro valore anche economico. Dei pioppeti dovevamo calcolare a mano, con l’aiuto delle tavole di cubatura, la massa in legno, poichè si comprava “a vista”. Non sempre andavo volentieri, ma di quelle occasioni ho un intenso ricordo: le esperienze, sempre le esperienze, che mi procurarono, alimentano ancora la mia cultura e la mia vita.