Maradona, tra arte del calcio e vita

Esattamente trent’anni fa scrissi il mio primo pezzo su questo giornale proprio dedicato al “Pibe de Oro”.

Oggi che la vicenda umana del calciatore più forte, e anche più intemperante del mondo, si è conclusa nell’epilogo del nostro comune destino, mi consento di aggiungere anche un mio commento. Maradona ha significato molto soprattutto per coloro che ne hanno fatto un idolo assecondando quell’indole tipicamente festaiola e adorante a cui sono predisposti i popoli latini.
Unicamente estroso, grandissimo e imprevedibile sul campo, libero nella vita, non certo sorseggiata a sprazzi, Maradona ha rappresentato l’eccezionalità tanto nello sport quanto nella fragilità e nella sregolatezza dei suoi comportamenti.
Un ribelle cresciuto in un barrio argentino, il pallone sempre ai suoi ordini e palleggiato addirittura di tacco, frutto di un talento che profuma di regalità. A vederlo giocare, fin da bambino, non si poteva non cogliere in quella sua agilità sbarazzina, in quella sua destrezza naturale, il segno di una preannunciata grandezza. Maradona era grande fin da piccolo e grande lo è diventato talmente da superare il confine tra eroismo e mitologia.
Maradona è stato un idolo del sentimento popolare anche per il suo carattere anticonformista, frutto di una vita in salita, segnata dalla povertà nella periferia di Buenos Aires, lui e la numerosa famiglia al precario riparo di una baraccopoli.
Con il calcio è arrivato il benessere e il successo ma Maradona non ha mai dimenticato l’umiltà delle sue origini che ha fatto da leva e propellente alla sua voglia di rivincita. E riscattando se stesso Maradona si è trasformato in occasione di riscatto per il popolo, che lo ha adorato tanto in Argentina quanto a Napoli.
In un campionato italiano egemonizzato dai potenti club del Nord, il Napoli, senza di lui, difficilmente avrebbe vinto lo scudetto.
Maradona era ricco di calore umano e di spirito anarchico. A Napoli ha raccolto allori e corteggiato vizi e pericoli. Le tentazioni gli si aprivano davanti come l’erba del campo in cui seminava gli avversari, la gamma dei piaceri si disponeva al suo cospetto, tra belle donne, frequentazioni azzardate, e anche occasioni molto rischiose come il feeling con la cocaina.
Forse, anche per questo suo modo di vivere, secondo umane inclinazioni, l’amore ricevuto dai Napoletani è da tutti i suoi fans è stato incondizionato come sancito da un patto inviolabile di scambio simbiotico.
L’amore per il calcio dei Napoletani era, e forse continua ad essere, al di sopra di tutto e Maradona lo ha ricambiato elevando il calcio a forma d’arte.
Maradona è stato capace di sedurre anche il non tifoso, ha convertito gli indifferenti alla poesia del pallone.
Di fronte alle sue prodezze, il calcio diventava arte condivisa, lo stadio si trasformava in anfiteatro di bellezza. Tanto per parafrasare sulle definizioni, se la fotografia e il cinema sono l’arte di scrivere con la luce allora, per Maradona, il calcio è stata l’arte di scrivere con il pallone.
Certo è vero che certe forme di venerazione e idolatria a molti sono sembrate piuttosto fuori luogo ed inspiegabili. Quando è arrivato al Napoli, nei primi anni ottanta, accolto come una divinità nello stadio S. Paolo, gremito di folla accorsa solo per salutarlo, io ero su una spiaggia di Nizza insieme ai miei cugini vietnamiti, là residenti.
Il clamore della notizia replicata sui media, l’accoglienza ebbra di gioia dei Napoletani, avevano destato nei miei cugini un unico incredulo commento, chiedendomi se in Italia eravamo diventati tutti matti. In effetti, mantenendo il senso delle proporzioni, il fenomeno Maradona non era facile da spiegare almeno senza un’opportuna collocazione.
Io stesso, pur apprezzando le magie calcistiche, mi ero sentito in imbarazzo così come mi sono sentito in imbarazzo in questi giorni, da che Diego se ne è andato, anche di fronte a quel signor Mollica che, certamente più fanatico che appassionato, negli anni splendidi del campione, ha battezzato il figlio come “Diego Armando Maradona Mollica”.
In Maradona si è celebrato il peccato comune dell’identificazione, l’immedesimazione con il successo per interposta persona. Anche per questo i campioni diventano idoli, soggetti di culto continuo, nomi e figure che si eternizzano nell’unica immortalità terrena possibile, quella del ricordo che non perisce perché diventa leggenda.
A pochi giorni dalle esequie, i tatuatori affilano i loro aghi. Molti vorranno portare l’effigie del campione per sempre incisa sulla loro pelle e molti neo papà faranno di nuovo scrivere il nome di Diego sull’atto di nascita dei loro figli.
Arte e follia si mescolano insieme sul grande palcoscenico della vita.
Nell’ultima sua intervista Maradona ha detto che forse sarebbe stato calcisticamente ancora più grande se non si fosse fatto fregare dalla cocaina. In contemporanea con queste parole nel brillio del suo sguardo viveva quel sentimento di assoluto che occhieggia in ognuno di noi e che si accompagna alla nostalgia di quella parte di vita a cui, forse per leggerezza, abbiamo rinunciato. Come sempre, anche chi ha avuto tutto ha perso qualcosa.
A me fa piacere ricordare Maradona come il fenomeno che conquistava anche gli avversari in nome della superiorità del talento e poi anche per quel piccolo articolo che gli ho dedicato trent’anni fa.
Poche semplici righe ispirate al suo controverso personaggio, e primo passo ufficiale nella mia personale avventura dello scrivere.

Pierangelo Scala