Miseria decorosa, miseria del decoro

Polemiche accese in seguito allo sgombero di alcuni senzatetto del centro città e al restrittivo regolamento sul possesso di animali

I cittadini di Torino sono proprio fortunati: l’amministrazione comunale, tramite i valenti sforzi delle forze dell’ordine, non manca di nascondere loro ciò che non è piacevole vedere e di metterli in guardia sullo sperperamento improduttivo dei propri patrimoni. Queste notevoli qualità sono emerse, in effetti, in questi ultimi giorni a tema clochard. Vi è stato, per esempio, un intervento congiunto di polizia e vigili urbani per le strade del centro nella mattina del 4 febbraio: su segnalazione, pare, di alcuni cittadini, sono stati sgomberati, identificati e allontanati dai portici sette senzatetto che vi passavano la notte, come quotidianamente avviene quando le luci e le insegne scintillanti si attenuano e l’Homo consumatoris torna nelle tane. Sembra che parte degli averi di queste persone (cartoni e coperte, probabilmente le stesse donate dai volontari nei propri giri serali) sia stata gettata nei rifiuti, e che alcuni di loro siano stati accompagnati in Questura per accertamenti. Subito dopo, si è provveduto a sanificare le strade. Nonostante sia stato più volte ribadito che i controlli periodici delle forze dell’ordine sono normale amministrazione, il fatto si è inserito in un clima già teso e ha sollevato non poche polemiche.

Vita da cani

In quegli stessi giorni, infatti, i toni si sono alzati riguardo a un presunto cambiamento nel regolamento per il benessere e la tutela degli animali varato dal Comune, che introdurrebbe il divieto generalizzato di “utilizzare qualsiasi specie animale, sia domestica-selvatica-esotica, per la pratica dell’accattonaggio”. L’evidente difficoltà nel distinguere chiaramente tra chi è “accattone” e chi semplicemente senza fissa dimora lascia molto spazio all’arbitrarietà del giudizio individuale di chi è preposto al controllo. Prevedibilmente, la sindaca Chiara Appendino, il Movimento 5 Stelle e la Consulta Animalista della Città di Torino si sono affrettati a mettere le mani avanti: il regolamento in questione è solo una bozza e, come si può leggere in un comunicato su Facebook l’amministrazione “è nata per aiutare gli ultimi”. In un altro comunicato si legge ancora: “Nessun intento punitivo o volontà di separare chi vive per strada dai loro animali o di sanzionare i senzatetto; il nostro intento non è certo colpire chi vive con un animale da compagnia, ma chi lo sfrutta appositamente per la pratica dell’accattonaggio”, pratica che sarebbe, a detta del Movimento, ben definita e caratterizzata dal codice penale e dunque ben distinguibile dalla pratica dei “miserabili virtuosi”, i “veri” senzatetto, quelli umili e senza scopi di lucro. Secondo l’articolo 669 bis, infatti, sarebbe imputabile di accattonaggio molesto “chiunque esercita l’accattonaggio con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà”, compresi quindi i cani. Ma come definire queste simulazioni, queste “modalità vessatorie”? Come determinare se un cane è effettivamente un fedele compagno di vita o uno strumento per suscitare psicologicamente pietà nei passanti? Come al solito, la chiarezza linguistica di una norma viene confusa con una presunta chiarezza reale della situazione.

Non avere, non chiedere, non dare

Se, da una parte, le precisazioni giunte in questi giorni dai vertici dell’amministrazione sono doverose e adempiono alla necessità di fare maggiore chiarezza sulla questione, dall’altra si assiste a una pericolosa e indegna deriva della discussione: da una parte, la classificazione della sofferenza, che spinge sul consolidare una narrazione che divida i “poveri buoni”, pacifici, amanti degli animali e disponibili ad accettare e usufruire degli aiuti istituzionali, dai “poveri cattivi”, accattoni, sfruttatori di cani, disonesti. Ma i tentativi di unificazione non mancano, come testimoniano le edificanti parole del comandante della polizia municipale Bezzon: “Nessuno dia più un centesimo agli homeless del centro. Per loro, i portici e le piazze sono un bancomat”. La vicesindaco Sonia Schellino si degna di condire posizioni simili con un pizzico di conciliante ipocrisia: “Nessuno in questa città pensa che il dono non sia azione lodevole e meritoria, ma per alcune persone, non tutte, ricevere offerte in denaro, nel caso in cui la quantità sia abbastanza consistente, può essere un deterrente all’accettazione di un percorso di ritorno all’autonomia e alla ripresa di quella fiducia in se stessi e nella comunità che sono indispensabili per uscire dalla situazione di vita in strada. È onesto intellettualmente dire che l’ostinazione a non spostarsi da alcuni spazi è determinata anche, ovviamente non sempre, da una rendita di posizione che garantisce una raccolta di fondi”. Questa onestà intellettuale è, in effetti, sfoggiata dalla giunta Appendino dall’ormai lontano 2018: ai tempi, la stessa sindaca aveva esortato a tenere gli spicci nelle tasche, frenare l’umano sentimento della compassione, e destinare quei soldi alle più competenti associazioni e onlus che si dedicano all’accoglienza e all’assistenza dei senzatetto.

La solidarietà è “al di là del bene e del male”

Sotto gli abiti puliti del buonsenso, queste opinioni nascondono il freddo distacco e il cinismo con cui la questione dei senza fissa dimora viene trattata dalle istituzioni. Scoraggiando la solidarietà spontanea e capillare, già di per sé sempre più rara, che spinge i più fortunati a interessarsi delle sorti e delle condizioni materiali di chi sta, letteralmente, per terra, si sta chiaramente suggerendo che la soluzione al problema può solamente arrivare da interventi dall’alto. Le istituzioni non possono, però, provare sentimenti, in quanto simboli astratti cui cediamo il potere di influire sulle condizioni concrete delle nostre vite: e dunque, le istituzioni non provano né solidarietà, né amicizia né compassione; ciò rimane ancora prerogativa e responsabilità umana, insieme alla capacità di empatizzare e di trovare sfumature nell’affollato spettro teso tra il bene e il male. Spesso, si ha l’impressione che dietro ai ruoli istituzionali, rivestiti inevitabilmente da persone, venga a mancare il lato umano; e ancora più spesso, la gestione di questioni complesse e sfaccettate viene ridotta a un mero “far quadrare i conti”. Affermare, come è successo, che è più importante fare ciò che si è deciso essere più efficace, a scapito di ciò che personalmente si sente come più giusto, presume l’aver trovato un metro di valutazione oggettivo per situazioni molto complesse. Effettivamente, questo metro sembra esistere, ed è il decoro: quando tutto diventa una questione di decoro (la bellezza di una città, la dignità di una persona, le condizioni di vita collettive) si ha l’illusione che la soluzione sia facile da trovare e rapida nell’applicazione: basta eliminare gli elementi indecorosi e, puff! Ecco ristabilito l’ordine e la pulizia. L’immagine delle strade sanificate dopo lo sgombero dei senzatetto dalle strade del centro riassume abbastanza bene questo processo; così come lo sgombero dei mercatari irregolari del suk, in seguito al quale questi son finiti a vendere le loro cose vicino a una discarica (simbolismo la cui crudezza colpisce in modo disarmante), mentre qualche jersey ha ri-perimetrato l’area indecorosa delle bancarelle di cianfrusaglie e povertà, finalmente riconquistata dal decoro; per non parlare di Piazza Palazzo di Città, teatro, l’anno scorso, di un presidio temporaneo, proprio davanti al Municipio, portato avanti dai senzatetto rimasti senza un posto in cui andare, in piena pandemia, in seguito allo smantellamento del tendone della Croce Rossa sotto il quale ricevevano un minimo di assistenza e riparo: anche qui, un rapido sgombero, e il trasferimento in un posto meno visibile, in cui il non-decoro potesse venire nascosto. La cara vecchia metafora della polvere sotto al tappeto calza a pennello; peccato che la polvere, in questi casi, siano persone. Nonostante sia stato negato a più riprese, da parte dell’amministrazione, un irrigidimento nella gestione del degrado urbano, i fatti recenti (tra cui ricordiamo anche lo sgombero delle Serrande di Corso Giulio Cesare 45, l’ultimo di una già corposa serie) rendono evidente l’intensificata volontà di “ripulire” la città, probabilmente in vista della ripresa della stagione turistica (che già si presume magra a causa delle restrizioni pandemiche) e delle imminenti elezioni amministrative.

Il decoro, a che prezzo?

La nuova parola che ossessiona amministrazioni cittadine e residenti delle grandi città, “decoro”, insieme a quella che esprime tutto quell’insieme di pratiche volte a stabilirlo, “riqualificazione”, crea una narrazione apparentemente pacifica, liscia e pulita che, tuttavia, non rispecchia la realtà dei fatti, poiché tende a rimuoverne parecchi. Spesso, si tenta di sublimare una materialissima e concretissima esigenza di profitto in un più astratto ed elevato desiderio di decoro (ordine, pulizia, graziosità, buone vibrazioni, bella presenza, sorrisi, allegria, agio, comfort, caffè multietnico, cibo vegano, design minimalista, colori tenui, buone maniere), instillato negli abitanti di una città: secondo questa narrazione, le zone e le realtà cittadine più complesse dovrebbero essere “strappate” al degrado e tutta una serie di massicci interventi andrebbero effettuati per trasformare magicamente un luogo, da spiacevole e problematico, in un tempio di benessere, ordine e sicurezza. La storia pregressa viene eliminata: niente deve frenare il nuovo entusiasmo riqualificatore, neanche le inevitabili complicanze legate a chi i luoghi li vive e ha intrecciato in essi legami lavorativi, relazionali, affettivi, quotidiani. Sono proprio questi i soggetti che, più colpiti dal cambiamento, vengono esclusi dai benefici e dimenticati: se ne avranno la possibilità, se ne andranno a vivere da un’altra parte, non più ben accetti nel nuovo clima che animerà il quartiere, e attenderanno che la storia si ripeta: i piani di riqualificazione infatti si susseguono inarrestabili.

Qualcosa si muove?

Tornando al problema dei senza fissa dimora, sembra comunque che le ultime polemiche abbiano portato degli sfoggi di zelo, di cui ancora è impossibile dire se si trasformeranno in soluzioni vere e proprie. È recente infatti la notizia di un nuovo modello di accoglienza, che verrà presentato dal prefetto Claudio Palomba nel prossimo vertice della Prefettura: esso consisterebbe nell’assegnare piccoli appartamenti o case condivise ai senzatetto per fornire una reale alternativa, oltre ai dormitori, al dormire in strada. Il problema, come al solito, sono i soldi che non ci sono; oltre ai dubbi: che sia l’ennesimo atto di “riqualificazione” buono sulla carta ma più interessato ai decorosi (e lucrosi) risultati che alla soluzione del problema? È ancora presto per dirlo ma, vista la cronica abbondanza di appartamenti e case vuote a Torino, la direzione suggerita sembrerebbe la più sensata. Tutto starà nell’attuazione, se mai avverrà, del progetto, e non ci resta che attendere i nuovi sviluppi.
Dopo queste rapide riflessioni, forse i recenti episodi ai danni dei senzatetto che popolano le strade di Torino si mostreranno sotto un’altra luce, più cinica, più sinistra, in cui i contrasti tra bianco e nero non appariranno più così evidenti. È un vero peccato che non sia così semplice distinguere tra buoni e cattivi: nel dubbio, meglio dubitare di chi pretende di spiegarci chi sono sulla base di parametri fuorvianti, volti a indurre il desiderio di una città irrealistica. Anche perché tali narrazioni sono particolarmente volubili: ad esempio Stefano, il “barzellettiere” ambulante che ha animato le zone universitarie torinesi e che è morto pochi giorni fa, da elemento di disturbo estremamente refrattario a farsi inquadrare in qualunque piano di reinserimento gli fosse proposto, alla sua morte è magicamente diventato, nelle parole della sindaca, un “simbolo cittadino”, nostalgicamente rimpianto per quel pizzico di folklore al pepe che smorzava il cipiglio sabaudo della città. Segretamente sorrido: ridevo molto quando scendeva la sera e Ste, dopo le solite chiacchere deliranti, se ne andava bestemmiando contro i dormitori che lo avrebbero accolto, perché in quei momenti a livello comico dava il meglio di sé.

Lara Barbara